L’Alpino: “Scemo di guerra… – 24/10

…a cura di Ilario Péraro

Alpini 2

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Scemo di guerra

Racconto liberamente ispirato alla figura di don Primo Discacciati, 
cappellano militare all’Ospedaletto di Storo dal 1915 al 1918.

ERANO PARTITI DA STORO ALL’ALBA

Giovedì 21 giugno 1917

 IL VOLTO DEL FRATE ERA TRISTE E SPRIZZAVA COMPASSIONE SINCERA

Venerdì 22 giugno 1917

(…continuazione)

«Be’» lo rimbeccò don Primo, «su questo non sarei sicuro. Comunque, se domattina questa lettera riesce a partire da Caprino Veronese, forse c’è ancora un briciolo di speranza per don Sergio!»
«Potremo far di meglio, allora» buttò lì il frate.
«Cioè?»
«Se mi consente di leggere il contenuto della lettera, giù a Caprino abbiamo il telegrafo e il telegrafista è un fedele frequentatore del mio eremo: prima di sera sua Eminenza il cardinale ne sarà al corrente magari domani potrà già risponderle…»
«Padre Augusto, faccia come le detta la coscienza e sono certo che quella sarà la scelta giusta!»
Trovarono il condannato nella stessa identica posizione in cui l’avevano lasciato la sera prima: seduto sull’orlo del letto, coi piedi che dondolavano a cinque centimetri da terra, intento a biascicare l’ennesima filastrocca… Soto la capa del camin – ghera ‘n vecio contadin – che sonava la chitara – uno, du, tri sbara – sbara mi sbara ti – la me gata vol morir – lassa che la mora – faren ‘na casa nova’, – nova noveta – anca per la so amigheta…
«Buongiorno, don Sergio» sussurrò don Primo, inserendosi sull’unica pausa disponibile al termine della canzoncina. «Si ricorda di noi? Io mi chiamo Primo e sono cappellano militare; questo è Alcide, il mio aiutante…»
«Buon giornata, don Sergio» disse il Ferretti, sedendosi sull’unico sgabello disponibile e tenendo la gamba ferita ben stesa in avanti. La pistola gli premeva sulla coscia della gamba sana.
Il condannato smise di cantilenare, abbassò lo sguardo su di sé e osservò a lungo e in silenzio la mano destra avvolta nello straccio sporco del giorno prima. «La mano fa male, la mano brucia… vorrei urlare ma non posso, mi picchiano se piango forte… ma il dito mi fa piangere di dolore… ho male, don Primo… mi brucia da impazzire… fate qualcosa, vi supplico! Bogona bogonela – tira fora i corni – se no te meto ‘n padela – ti e to sorela…»
«Alcide, ti prego: fammi ancora un piacere, va là!»
«Son qui per questo, monsignor Primo!» rispose il giovane tirandosi a fatica in piedi.
«Corri in infermeria: dì all’infermiere che don Discacciati s’è fatto male e gli servono garze, alcol, pinza e blocca garze!»
«Però, detta così, è sicuro che si precipita il medico del forte per salvarla da morte certa?»
«Be’, tu di’ all’infermiere che sei diplomato e puoi arrangiarti tu a ricucire e disinfettare ogni cosa. Dai, forza, corri!»
«E adesso mi stia ad ascoltare, don Sergio» esclamò don Primo sedendosi sul letto accanto al prigioniero.
Parlò a lungo senza mai fermarsi, il cappellano, raccontando i punti salienti della sua vita. D’altronde era stato quel sant’uomo di prete che rispondeva al nome di don Giovanni Bosco a dirlo: ”Se vuoi che i giovani si fidino di te, devono sapere chi sei, devono conoscere la tua vita, non puoi essere un estraneo, per loro!”
Gli parlò di suo padre Clemente e della madre Maria, dei fratelli Gilberto, Giulio, Peppino e Franco. Rimasti orfani di entrambi i genitori agli inizi del Novecento, i Discacciati trovarono conforto e riferimento nelle zie Clarice e Fanny e nella prozia anche lei di nome Fanny, suora canossiana a Gallarate. Gli descrisse nei particolari la cerimonia di consacrazione sacerdotale a opera del cardinale di Milano Andrea Carlo Ferrari, le sue prime esperienze come coadiutore prima ad Appiano Gentile e poi ad Asso, vicino al lago di Como, dove venne sorpreso dalla guerra.
Don Sergio era praticamente ipnotizzato dalla voce calma e serena di don Primo che parlava, parlava e parlava senza sosta: il poveretto aveva smesso di biascicare filastrocche astruse e si limitava a dondolarsi leggermente lasciando che la saliva gli colasse sul mento.
«Aspetti che la asciugo, don Sergio!» esclamò a un certo punto il cappellano, passando lo straccio sulla guancia e sul collo del condannato. «Come le stavo dicendo, gli anni di naia li passai in Sicilia e disgrazia volle che in quel periodo la terra di Messina si mettesse a tremare e a sussultare: fu un terremoto terribile quello del 1908, gliel’assicuro, con la morte che a ogni via della città si prese il tributo di sangue e di dolore. Gli anni di leva militare non li scorderò mai, trascorsi in balia dell’ignoranza di certi capitani e della strafottenza dei sergenti: quando però nel 1915 arrivò la cartolina precetto non mi tirai indietro, non m’imboscai e mi presentai per la visita di arruolamento. «Ma lei è un prete in cura d’anime, vero?» mi disse il capitano sfogliando le carte che mi riguardavano. «Certo, coadiuvante del parroco don Rodolfo Ratti ad Asso.» «Se le cose stanno così, don Discacciati, il decreto luogotenenziale la esonera dal servizio militare. Torni quindi alla sua parrocchia e addio!» Mi sentii come tagliato fuori, espulso dalla società: e perché? Ma io, semplice sacerdote di paese, non potevo partecipare alla guerra e dare una mano alla patria? E allora alcuni giorni dopo, aiutato dal parroco don Ratti, feci domanda per essere arruolato come volontario. Quella volta venni subito accettato e spedito come cappellano militare col grado di tenente degli alpini all’infermeria di Bergamo e, da lì, nella piccola Storo, al confine fra Trentino e Lombardia…»

Ilario Péraro – (10 continua)

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