L’Alpino: “Esempio di grande attaccamento ed estrema fiducia nel comandante”… – 21

…a cura di Ilario Péraro

Alpini 2

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Tenente Caimi* di Italo Gori – pubblicato il 15 maggio 2011 – testo trascritto da Giuseppe Martelli dalla propria collezione cartacea de L’ALPINO.

“Esempio di grande attaccamento ed estrema fiducia nel comandante”

Tenente Giuseppe Cimi

Italo Gori Caporale del 7° Reggimento, di San Marino racconta della fine del leggendario Tenente Giuseppe Caimi: (detto Polidoro, Milano, 19 dicembre 1890 – Ravenna, 26 dicembre 1917, è stato un militare e calciatore italiano, di ruolo centrocampista. Durante la prima guerra mondiale si arruolò volontario nel Corpo degli alpini, distinguendosi particolarmente nei combattimenti, tanto da venire decorato con una Medaglia d’oro e tre d’argento al valor militare)

[…] L’11 cominciò il primo bombardamento; il 12 a Cima Valderoa, la 66^ era di rincalzo alle altre Compagnie del Battaglione. Il monte pareva sprofondare, inabissarsi. I sibili lamentosi, gli schianti, le vampe del fuoco accecanti, si susseguivano senza fine. Tutto ardeva; la terra lacerata, s’apriva in buche aride, eruttando in un denso nuvolone di fumo, sassi infuocati. In mezzo alla bufera di ferro e fuoco, un uomo capeggiava alto e sicuro; era il Tenente Caimi della 66^, l’eroe che poi fu chiamato leggendario.
Io lo vidi per un momento solo, come in una visione, mentre trasportava, arrancando, una cassa di petardi in galleria, per il plotone pronto ad accorrere nella trincea vicina. Lo vidi comparire e sparire nella nebbia del fumo, che faceva appena intravvedere i lampi e gli uomini chini, che correvano in linea a rimpiazzare i caduti. Udii la sua voce possente: – Alpini, vendicate Fontana Secca! – E la sua persona invulnerabile, sola con la morte, che più volte in attacchi disperati tentava di abbatterlo, dominava la posizione.
Alla sera, cessati l’impeto e la foga nemica, Egli era fra noi raggiante nel vederci ancora salvi e desiderosi di entrare nella mischia. Ed aveva per tutti una parola buona, una parola di conforto, d’incitamento e di lode. “Non passano, state sicuri, siamo qui noi”. “Sacrificatevi, finché ci sarà un Alpino, il monte sarà nostro”.
La mattina del 13 fummo destati, ognuno nel suo baracchino, dall’ostinato bombardamento. Dal vano del nostro piccolo ricovero, scorgevamo in un’alba di fuoco, fin giù nella pianura, i lampi e le nuvole bianche degli shrappnels, che parevano scaturire dalla terra graffiata. Ogni tanto la nostra tana era scossa, quasi volesse sprofondare, dai colpi tremendi; la pioggia dei sassi e del terriccio, s’abbatteva sul tetto fragile.
“Fuori! – gridò una voce – tutti in galleria!” Ci precipitammo col fucile, il tascapane, tra il fumo denso e l’impeto della bufera infernale. Fuori, come ombre, correvano con le barelle vuote i portaferiti, e venivano giù poco dopo col loro carico dolorante.
Niente altro. Nella mattina la 64^ e la 65^ furono impeto supremo che magnificava. Fu una lotta epica di giganti, da Alpini; esaurite le munizioni, in un impeto supremo che magnificava tutta la loro forza, essi ricacciarono il nemico coi macigni, coi sassi scavati nella terra infuocata. Non vedemmo il Tenente Caimi; temevamo per lui. L’Attesa era impaziente; dentro la galleria aspettavamo l’ordine di correre in trincea. Fuori continuava il brontolio sordo ed interminabile. Finalmente udimmo la voce nota: “Uscite, prendete il camminamento a destra, fate attenzione perché a pochi passi c’è un posto scoperto”. E scomparve. Appena giunti sul luogo indicato, ove la rabbia del fuoco aveva abbattuto e sconvolto i ripari, fummo investiti da una raffica di mitragliatrice e costretti a gettarci a terra. Rimanemmo diverso tempo sotto l’inferno che si scatenava con un soffio possente. Tre dei nostri compagni, in capo alla fila, erano rimasti fulminati; qualcuno si lamentava. Un alpino passò di corsa sul ciglio; mi cadde sopra. Le sue membra ebbero un fremito; percepii gli ultimi palpiti della sua vita quasi fosse unita alla mia e il cuore arrestarsi. Rabbrividii… Poi, quando la notte stese la sua ombra sopra la terra martoriata, giungemmo in trincea col carico sacro dei morti e dei feriti. Lo stupore, la meraviglia nostra, fu nel vederci comparire dinnanzi il Tenente Caimi. Com’era giunto? come si era salvato da quell’inferno?
Innanzi ai morti, tre ragazzi del ’99, si scoprì con mossa fraterna, pietosa; si chinò su loro, accarezzandone i capelli. “Poveretti” disse. Poi rivolgendosi a noi; “Andate a riposare, domani ci sarà da fare qualcosa. All’erta, questa notte” E se ne andò a sua volta cantando: – Sul cappello che noi portiamo sta una lunga penna nera, che a noi serve da bandiera, su pei monti a guerreggiar -.
La notte passò calma, senza una fucilata; alla mattina ci destammo sicuri, impazienti di vendicarci, di far scontare con la più tremenda delle rappresaglie l’inutile rabbia nemica. Ma verso mezzogiorno, l’inferno raddoppiò d’intensità; di fronte, alle spalle, ai fianchi, la posizione era battuta furiosamente dal fuoco. “Non passano! non passano” si gridava. In linea c’erano ancora gli avanzi del “Valcamonica” o del “Feltre”. Il nemico sembrava, certo di riuscire, sicuro che sul Grappa regnasse ormai la morte. Noi l’attendevamo riparati alla meglio, nelle trincee sconvolte, come avvinti, attanagliati alla roccia, ma sempre pronti a scattare al momento opportuno.
Da un punto all’altro, il Tenente Caimi, calmo, incoraggiava, esortava, incitava i suoi Alpini a resistere fino all’ultima goccia di sangue, fino all’ultimo respiro. Sette contrattacchi furibondi, sette vittorie disperate, riconsacrarono quel giorno la nostra gloria, dopo quella del Cauriol. Sempre avanti, a capo scoperto, il Tenente Caimi guidava vittoriosamente i resti del Battaglione.
Ma la morte, che fino allora in tante lotte disperate lo aveva risparmiato, ebbe il 
sopravvento. In un attacco furioso, mentre gridava ancora una volta: “Avanti, avanti, non passeranno! Viva l’Italia”, una raffica di mitraglia, lo abbatté. Il corpo rotolò giù per la china, colpito da sette pallottole.

Epitaffio per morte di Giuseppe Caimi

Respirava ancora; ebbe la forza di gridare un ultimo: “Avanti!” ai suoi Alpini, che inseguivano con impeto furioso, baionette alle reni, il nemico, ricacciandolo dalle posizioni. Al portaferiti accorso, che pietosamente lo sollevò dalla pietosa pozza di sangue, ove già rantolava, disse: “Sono felice di averli visti fuggire!” Al posto di medicazione, il Cappellano, scorgendo il carico glorioso e quel viso grumoso, irriconoscibile, chiese ansiosamente: “Chi è?” L’eroe, dal volto sfigurato, si levò fiero dalla cintola in su, gettò tutta la sua grandezza sopra gli astanti : “Sono il Tenente Caimi!” e ricadde nel proprio sangue. […]

Ilario Péraro

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