Feriani Giampaolo

…a cura di Graziano M. CobelliPoesia

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Chi è Giampaolo Feriani

Nato a Legnago (VR) il 13 agosto 1938, da genitori di modesta estrazione sociale, ma di sani principi ed elevati sentimenti morali. Ha trascorso la sua infanzia a Boschi Sant’Anna, un piccolo paese della Bassa Veronese, in una casa povera, ma dignitosa che aveva la corte in comune con altre abitazioni. Portò in sé il ricordo di quel periodo come di un  tempo felice, anche se attraversato dai fuochi e dalle bombe della seconda guerra mondiale. La sua felicità era fatta di niente, di poveri giochi, che spingevano la sua fantasia a costruirsi un mondo ricco di avventure con ciò che capitava, vuoi correndo scalzo par i prà, nuotando nei fossi, andando a niai sugli alberi o a rane de note col fanal. Giampaolo ha fissato la sua vita bambina in una della sue poesie “Ringrassio Dio”, dove esprime una riconoscenza infinita per la vita che gli è toccata in sorte, dove ha conosciuto il cuore di tanta brava gente, poveri Cristi che vivevano in serenità accontentandosi di lavorare ’n fassol de tera, che sapevano gòdarse con gnente… e gli bastava un goto par tirar fin sera. La sua era una famiglia, che, come si usava allora, oltre ai genitori e un fratello di sette anni più grande, vivevano i nonni. La mamma lavorava da sarta e il papà faceva l’ovarolo, girando per le case di campagna a raccogliere uova e rivenderle a un commerciante grossista. A questo papà dedicò più tardi una delle sue poesie più belle: “No me vergogno più” esaltandone la figura di uomo onesto sensa ombria e fedele.

Era un bambino intelligente, sveglio e curioso, perciò finite le elementari i suoi si impegnarono a mantenerlo agli studi mettendolo in vari collegi fino a raggiungere la maturità liceale. Ma non potè accedere all’università per il fatto che, dopo che la famiglia si era trasferita a Pressana, un paese della provincia veronese, ai confini fra Vicenza e Padova, la sua vita fu sconvolta da gravi lutti che bloccarono le sue future aspirazioni: nel giro di qualche anno perse in due gravi incidenti stradali, prima il padre nel 1956, e poi il fratello nel 1961. Riuscì ad ogni modo a guadagnarsi il “pezzo di carta” per poter lavorare, diplomandosi in Ragioneria al Minghetti di Legnago. Era bravo a scrivere e già aveva una particolare predisposizione alla poesia che componeva sottobanco. Tra le sue carte sono state ritrovate poesie del 1959 rigorosamente scritte in italiano. Ma a 22 anni, nel 1960 conquistò il secondo premio al concorso letterario Premio di poesia “Bruno Tosi” (Comune di Legnago), mentre nel 1961 gli viene assegnato il primo premio. Il giovane poeta, pelle  bruna, occhi e capelli neri, venne notato da una grande donna, uno dei personaggi di maggior spicco della vita culturale veronese, Maria Fioroni (1887-1970), fondatrice del Museo Fioroni, che scrisse al Prof. Gino Beltramini, segnalandogli Giampaolo Feriani come “persona meritevole” di attenzione. Il “Profe” non se ne dimenticò mai. Nacque fra loro un rapporto d’elezione durante il quale  le poesie in dialetto di Giampaolo furono sovente pubblicate nella rivista “Vita Veronese”, fondata nel 1948 e diretta dal Gibe. Il susseguirsi dei riconoscimenti gli confermarono di essere sulla strada giusta, continuò ad andare avanti raggiungendo il diploma di ragioniere e, traslocando a Legnago. Da qui dopo vari approcci con il mondo del lavoro, venne definitivamente assunto “parché el scrivea ben i numeri” dal Pollo Arena di Sommacampagna. Con la corriera tutti i giorni, raggiungeva la stazione di Verona e un collega lo prelevava per raggiungere la sede di lavoro a Sommacampagna. Nel 1966 si trasferì in Città dove  ritrovò il compagno di collegio Gigi Busato già affermato pittore e si rinsaldò la loro amicizia. Con lui iniziò a frequentare i Circoli artistico letterari della città e nel 1967 si sposò con Maria Rachele, anche lei di Legnago: un matrimonio d’amore unito a un forte sodalizio di coppia e allietato da due figli: Matteo e Marta. A Verona iniziò anche a prendere conoscenza della produzione poetica in lingua veronese, frequentando con assiduità il Cenacolo di poesia dialettale dedicato a Berto Barbarani, a leggere riviste letterarie e approfondire la conoscenza con tanti poeti fra i quali si legò in modo particolare a Tolo da Re, a questo, negli anni settanta rese un impareggiabile omaggio fondando la filodrammatica “Teatro Insieme” e portando in scena alcune sue commedie in vernacolo: “Maledission a Rivaderane” e “Giulieta l’ultima”. Stabilì una solida e duratura amicizia con il poeta della Valdadige Bepi Sartori, per tutti el dotor Zachelequa, che nell’ultimo saluto lo ha chiamato fratello, amico, maestro, ringraziandolo per ognuna delle parole che lui ha salvato dall’oblio. In effetti in oltre 40 anni di attività letteraria, Feriani ha pubblicato 13 raccolte poetiche (postuma I sentieri del tempo, 2017). Fra le ultime troviamo Fiori de fosso e El scagnel de la memoria. (2008) Su questa raccolta la scrittrice e poetessa veronese Lucia Beltrame Menini si è soffermata per coglierne oltre la tenerezza, la sensibilità e la dolcezza, anche “l’arte magica proveniente dalla bacchetta di questo maestro-poeta: una poesia che, come Fata morgana, rinasce sempre dal cuore”.[1]
Negli ultimi anni si è dedicato a un dizionario delle parole veronesi che stanno scomparendo, opera pubblicata postuma col titolo Nel calto del desmentegòn, dove ha raccolto, per una vita intera, parole e modi di dire della nostra lingua veronese.
Sono stati moltissimi premi meritati «Ne avrò vinti 100», rideva, «era diventato un lavoro, ho smesso», il più ambito fra i quali il “ Barbarani d’oro”, intitolato al grande cantore di Verona morto nel 1944. Giampaolo se ne è andato proprio a 70 anni dalla sua morte.
Mi piace pensare a un loro appuntamento nell’Empireo dei Poeti Eterni, insieme anche all’amico Tolo Da Re e a tutti coloro che hanno nobilitato con la loro poesia la ricchezza espressiva del nostro dialetto.

[1]Da www.legnagomusica.it/poesia “ciao giampaolo feriani, fiolo de la Bassa. Ricordo struggente del poeta , tra i versi di questo suo canto ultimo” di Lucia Beltrame Menini.

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Ringrassio Dio

Ringrassio Dio che quando l’à pensà
‘ndo farme nassar l’à sernì un paese
fato de poche case, qualche prà,
e un stradon bianco incornisà de sese…

e lì ò imparà a nodar drento ne i fossi,
a còrare descalso a piè par tera,
a bèvar l’aqua tirà su da i possi,
a andar par brusa-oci in primavera…

Ringrassio Dio che’l m’à lassà zugar
con quel che capitava… anca con poco…
na surla, un sentanin… podea bastar
par el me mondo picinin, pitoco…

Ringrazio Dio parchè el m’à dato tanto:
parchè gò visto nassare el caval…
gò ciapà in man la lodola e el s-ciaranto…
son ‘ndà de note a rane co’l fanal…

Ringrassio Dio che in tola a casa mia
el pan no’l ne mancava quasi mai…
e gnanca la polenta… e la graspìa…
Ringrassio Dio che l’à inventado i niai

par farme rampegar… ringrassio Dio
par la me gente, semplice, de cor…
con lori, pori Cristi, gò capìo
che i schei no i gà mai fato nessun sior!

Par tuti sti regai, sora l’altar
de i giorni che i me sbrissia in mezo a i dei,
mi porto in ofertorio el me zugar,
l’odor de i campi, el fogo de i brugnei,

le fole de i filò drento la stala,
do s-galmare de legno co le broche,
un s-cianco, un par de màrmore, na bala…
a Dio gh’ì e porto su le man pitoche

de la serenità de la me gente:
gente che vive con ‘n fassol de tera…
gente che la sa gòdarse con gnente…
ghe basta un goto par tirar fin sera..

Ringrazio Dio: Ringrazio Dio che quando ha pensato/dove farmi nascere ha scelto un paese/di poche case, qualche prato,/ed un vialone grande incorniciato di siepi…/e li ho imparato a nuotare nei fossi,/a correre scalzo con i piedi per terra/a bere l’acqua attinta dai pozzi,/e andare per tarassaco a primavera..//Ringrazio Dio che m’ha lasciato giocare/con quello che capitava… anche con poco…/un maggiolino… un lombrico poteva bastare/per il mio mondo piccolo, povero…//Ringrazio Dio perché m’ha dato tanto:/perché ho visto nascere il cavallo…/ho preso tra le mani l’allodola e il verdone/sono andato di notte a rane con il fanale…//Ringrassio Dio che a tavola a casa mia/il pane non ci mancava quasi mai…/e nemmeno la polenta… e la “graspìa*”//Ringrazio Dio che ha inventato i nidi/per farmi arrampicare… ringrassio Dio/per la mia gente semplice… di cuore…/con loro, poveri Cristi, ho capito/che i soldi non hanno mai reso nessuno ricco!//Per tutti questi regali, sull’altare/dei giorni che mi scivolano tra le dita,/mi porto in offertorio il mio giocare,/l’odore dei campi, il fuoco dei falò,/le storie dei filò nella stalla,/due “s-galmare*”,/ uno “s-cianco*”, un paio di biglie, una palla…/a Dio glieli porto sulle mani povere/della serenità della mia gente:/gente che vive con fazzoletto di terra…/gente che si sa divertire con nulla…/gli basta un bicchiere per tirare fino a sera…

(graspìa* = simile al vino ottenuto continuando a versare acqua fresca sulle vinacce già torchiate)
(s-galmare* = scarpa dei poveri con tomaia in cuoio e suola e tacco in legno / zoccolo in legno anticamente perché non si consumasse il legno, sotto, veniva tempestato di borchie)
(s-cianco* = gioco della lippa)

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I veci

I veci, adosso, i gà l’udor de tera…
i vive soli, senza compagnie,
i gà pensieri fredi come piera
che i nega drento el vin ne le ostarie…

i veci i è un disturbo par la gente,
i dà fastidio fin a quando i more,
e i veci i se inacorze, i scolta, i sente…
ma ormai i è come strache ligaore

che, destirà tra i crepi de un mureto,
no le respira gnanca, soto el sol…
anca de note, al fredo, drento el leto,
no i dorme pì, i se gira ne’l  nissol,

i speta la matina… i passa via
ne’l rugolar de storie e fantasie…
la luna, par i veci, l’è ‘na stria,
la se alza drento un mare de busie,

la more sora i oci verti  a’l  scuro
e la regala dì pì longhi ancora…
sora la tola i veci i gà el pan duro
e ghe vien voia de spuarghe sora

ma i tase, i magna, i fa finta de gnente…
i se rancura tuto drento el peto…
e, se anca i gà la morte li darente,
i prega de campar… par far dispeto…

I vecchi: I vecchi, addosso, hanno l’odore della terra…/vivono soli, senza compagnie/hanno pensieri freddi come la pietra/che annegano nel vino nelle osterie…/i vecchi sono un disturbo per la gente,/danno fastidio fino a che muoiono,/ed i vecchi se ne accorgono, ascoltano, sentono…/ma ormai sono come stanche lucertole/che, stese tra le crepa di un muretto,/non respirano nemmeno, sotto il sole…/anche di notte, al freddo, dentro al letto,/non dormono più, si rigirano nel lenzuolo,/aspettano la mattina… passano avanti/nel rotolare di storie e fantasie…/la luna, per i vecchi, è una strega,/si alza dentro un mare di bugie,/muore sopra gli occhi aperti al buio/e regala giorni più lunghi ancora…/sopra la tavola i vecchi hanno il pane duro/e vien loro voglia di sputarci sopra/ma tacciono, mangiano, fanno finta di nulla…/si raccolgono tutto dentro il petto…/e, se anche hanno la morte li accanto,/pregano di vivere… per fare dispetto.

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Nota Biografica di Elisa Zoppei

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