Beatrice Solinas Donghi – “L’uomo fedele”

…a cura di Elisa Zoppei

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Carissimi, mantenendo fede alla mia etica di amante dei libri da non dimenticare, pongo alla vostra attenzione un raro e pressoché sconosciuto, per non dire quasi del tutto dimenticato, capolavoro della letteratura italiana del ‘900,  “L’Uomo fedele” (Rizzoli, 1965), di Beatrice Solinas Donghi. Intendo in tutta umiltà rendere omaggio a una grande donna che ha fatto della scrittura un’arma generosamente narrativa.

Beatrice Solinas Donghi

Note biografiche
Scarsissime sono le informazioni riguardanti la vita privata di questa scrittrice, vissuta fino all’età di 92 anni nello stretto riserbo della sua casa genovese, frequentando pochissimi scrittori del suo tempo e partecipando raramente a salotti e simposi letterari.
Beatrice Solinas Donghi nacque il 29 marzo 1923 a Serra Riccò, un paesino della campagna ligure distante pochi chilometri da Genova. La famiglia apparteneva a un nobile casato per parte di padre, il marchese Jack Donghi, giornalista e scrittore ligure. La madre, Eileen Smith, stimata pittrice inglese, le raccontava tanti episodi della sua vita infantile nella Londra di fine ottocento. Quei racconti le fornirono poi la materia prima per le tre storie di Alice (”La trilogia di Alice”, BUR, 2010)
Visse una infanzia felice e libera nella vecchia villa di famiglia sulla collina di Albaro, presso Genova. Qui fra le mura domestiche ricevette l’istruzione basilare che la avvicinò ai libri e alla lettura e la mise in grado di muoversi con disinvoltura fra le grandi opere di letteratura di cui era fornita la biblioteca paterna. Avida lettrice si innamorò giovanissima dei romanzi di Charles Dickens e delle sorelle Brontë, ma rivela che l’autore che la conquistò più di qualsiasi altro, insieme a Goldoni, fu il nostro Ippolito Nievo. Una volta sposata con Luigi Solinas, di origine sarda, e aver messo al mondo due figlie si trasferì stabilmente con la sua famiglia nel capoluogo ligure.
Io ho avuto la fortuna di conoscere personalmente questa straordinaria scrittrice, nella seconda metà degli scorsi anni novanta, durante la mia attività universitaria di studio/ricerca dedicata alla narrativa fiabesca. Fra gli altri, si lavorava su un suo saggio molto interessante “La fiaba come racconto” (Mondadori,1993), testo tuttora validissimo per comprendere i profondi legami del mondo fiabesco con gli stadi evolutivi della prole umana. La Solinas Donghi fu con me e con gli studenti una amabile incantatrice, esponendo con un limpido pensiero pragmatico quale grande influsso educativo avevano sui bambini i racconti delle fiabe tradizionali, tema allora inserito nella discussa questione se le fiabe servivano ancora. Lei, facendo simpaticamente piazza pulita delle interpretazioni etnologiche o psicologiche delle fiabe, e riconducendole alla loro essenza di racconto, dimostrò che esse continuavano e avrebbero continuato a occupare un posto centrale nei rapporti educativi mirati alla crescita equilibrata dei bambini. Se ne intendeva davvero di fiabe: da bambina ne aveva ascoltate tante e più avanti fu un’avida lettrice di storie fantastiche e più tardi ancora, dopo essersi laureata presso l’università di Genova nel 1949 in Lettere Moderne, si diede alla scrittura, prima, collaborando al Giornale di Indro Montanelli, e poi dandosi per intero con passione a scrivere per ragazzi. La sua vasta produzione uscì per anni nelle nuove maneggevoli collane dei tascabili, incontrando l’entusiasmo di giovani lettori e lettrici. I personaggi delle sue storie erano ragazzi e ragazzine vivaci e intraprendenti, alle prese con le avventure del vivere quotidiano, capaci, fra castelli e fantasmi, di superare ordinari ma anche straordinari ostacoli e difficoltà con trovate ingegnose, forza di volontà e colpi di fortuna. Piacquero assai le sue storie dove metteva in scena ragazzini che cercavano di essere fedeli a se stessi. Osserva infatti Beatrice Masini, sua importante editing: “…sia gli  eroi che le eroine di Le storie di Ninetta, Quell’estate al castello, Il fantasma del villino, Alice sulla strada, La gran fiaba intrecciata, Sette fiabe dentro una storia, Le fiabe incatenate, solo per citare alcuni titoli, osano, rischiano, si cimentano con le esplorazioni, il commercio, le faccende di casa, la cucina, il taglio e il cucito… ma senza prediche, né morale finale sui valori di una volta contrapposti a quelli di oggi” (https://www.andersen.it/beatrice-solinas-donghi/). Tutti infatti concordano che le storie di Beatrice Solinas Donghi, rimangono estranee a qualsiasi forma di insegnamento pedante, per essere “solo” storie, in cui si incatenano azioni fantastiche e scene quotidiane. Sanno di nostalgia più verso la tradizione letteraria del racconto popolare e del romanzo d’appendice, che del passato storico. Nel 2003 le fu assegnato l’importante Premio Andersen alla carriera.
Salì agli onori della cronaca quando due anni prima della sua morte avvenuta nel 2015, donò tutto, archivio e patrimonio artistico, alla Biblioteca civica comunale Edoardo Firpo, di Serra Riccò, suo paese natale.

Durante una intervista, ritrovata su youtube ho sentito che preferiva scrivere racconti e romanzi per ragazzi perché essendo molto esigente con se stessa, temeva di non sentirsi abbastanza capace di impegnarsi a portare avanti per tempi lunghi una storia, temeva di perdere il filo degli eventi o di banalizzarli. Chapeau, davanti a questa donna lucidissima e preparatissima, riconosciuta di grande valore da Giorgio Bassani Italo Calvino, Anna Banti, tanto per nominarne alcuni.
Scrisse moltissimo per i ragazzi, ma due soli romanzi per adulti: “L’uomo fedele” e “ Le voci incrociate”, ambedue pubblicati da Rizzoli.

L’ho riscoperto in questi giorni fra i libri salvati dal trasloco di alcuni mesi fa, felice di ritrovarmi tra le mani “L’uomo fedele”, il primo dei suoi romanzi per adulti, letto tanti anni fa e ancora capace di darmi le forti emozioni di allora, risvegliandone delle altre. La prima edizione Rizzoli era avvenuta nel febbraio 1965 ed entrò nella cinquina dei finalisti al Premio Campiello con questa motivazione “Il significato di questo romanzo consiste in gran parte nella rievocazione di un tipo di vita a contatto con la terra da coltivare, di cui oggi non si ha quasi più traccia».
Scritto in uno stile fermo e con l’asciutta sobrietà, dovuta, come confessa l’autrice, al suo carattere un po’ spigoloso, ma anche, secondo gli esperti, all’influsso di quella che chiamarono inglesitudine, per la sua intensa frequentazione della letteratura inglese, il romanzo è stato definito uno straordinario affresco della fine della “civiltà della villa”, della vita cioè campagnola genovese, di fronte alla progressiva urbanizzazione del territorio. Al di là di questo, il racconto narrato in prima persona dalla protagonista, Teresita, da quando era una ragazzina fino alla donna matura, ha una trama semplice, lineare, avvolta in una atmosfera genuinamente rurale e senza infiorettature, dove si muovono i componenti di una famiglia contadina, ognuno con il preciso compito di contribuire a tenere in sesto il podere e farlo fruttare in virtù delle bocche da sfamare. La figura del padre, grande lavoratore, uomo di saldi principi, fedele al suo ruolo di capofamiglia responsabile del sostentamento e del decoro dei suoi, risalta solida ed esemplare: i gesti misurati, le parole contate. È rimasto vedovo, e il ricordo di quella mamma che le faceva mangiare pane e latte raccontandole la filastrocca di Pochechetto, si è sfocato nel cuore di Treresita che ora è tutto per il suo babbo. Man mano che cresce, la ragazzina lo guarda e lo vede come un idolo protettivo da rispettare e ammirare, di fronte al quale essere all’altezza delle sue aspettative. E tutto in lei si protende per avere la sua approvazione; sobbarcandosi oneri al di sopra della sua età, specie quando arriva la cugina Polonia che si prende cura della casa e sa cucinare appetitosissime frittate con le erbe dell’orto. E qui la vita della ragazzina cambia: si insinuano in lei motivati sospetti che Polonia, con quei grandi occhi grigio azzurri, il personalino minuto e la lingua peperina, possa influire sulle decisioni del padre e sull’andamento del tran tran familiare. Ma soprattutto teme che ella donna circonfusa di un certo fascino malefico, possa rubarle il primato nel cuore del padre. L’altalena di questi tormenti si alterna nell’animo di Teresita, prima bambina, poi fanciulla e infine donna, a momenti di festosità o arrabbiature, in un incessante susseguirsi di sentimenti di amore e odio o invidia e desiderio di amicizia, verso Polonia, che impassibile la fa da padrona e sembra vedere e sapere tutto e parla sempre giusto. E di certo lui, il capo di casa, che, per amor di pace, finge di non accorgersi di nulla, non rimane indifferente alle grazie di Polonia, la quale dal canto suo va giurando e spergiurando di non aver mai messo gli occhi su di lui. Chissà se sarà vero. Altri personaggi agiscono sul palcoscenico della vita di Teresita e fanno corona intorno a lei: il fratellino disobbediente, lo zio Nin sempre appartato, le zie pettegolone, la nonna profumata di antichi sapori, ognuno con caratteristiche incisive particolari che li rendono unici, vivi e reali.
Come si concluderà questa storia sgomitolata in tempi lunghi e lenti come un racconto da filò invernale? È lecito farsi questa domanda, ma bisognerà arrivare all’ultima pagina per sapere come sono andate le cose per Teresita, Polonia e l’Uomo fedele e gustarsi un finale a sorpresa. E che sorpresa!!!
Consiglio questo libro anche ai giovani, perché si renderebbero conto non solo di come i tempi siano cambiati, ma anche di quali gioie interiori era costellata l’età adolescenziale, pur vissuta nelle angustie economiche e soffocata dalla ristrettezza mentale degli adulti.

Buona lettura
Vs Elisa

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…a cura di Anna Maria Matilde Filippozzi

 

Antichi sapori ; ieri e oggi in cucina

… arriva la cugina Polonia che si prende cura della casa e sa cucinare appetitosissime frittate con le erbe dell’orto.

 

Frittata con le erbe

  Ingredienti:

Uova

Cipollotti,

aglio fresco,

Erbe: agretti, melissa, spinaci, asparagi, tarassaco, luppolo, borraggine, etc.,

Olio evo,

Sale

Pepe.

 Preparazione:

Tritate grossolanamente e mescolate le erbe e le verdure novelle che potete trovare nei campi e nell’orto (oppure sulle bancarelle del mercato). Fatele appassire in olio extravergine d’oliva con l’aglio e i cipollootti tritati. Quando tutta l’acqua di vegetazione, che avranno rilasciato, sarà evaporata, unitele alle uova sbattute e condite con sale e pepe. Procedete come per una normale frittata, facendo dorare ambo le  parti.

  Consigli:

Il segreto per una frittata alta e soffice sta nell’aggiungere un goccio di latte nelle uova sbattute e cuocere la frittata su fiamma bassissima e con il coperchio.

Ricetta a cura di Anna Maria Matilde Filippozzi

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