3. La partenza

…a cura di Aldo Ridolfi

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Ponte di Veja

Giuseppe Luigi Pellegrini, Abate e Conte, in escursione al Ponte di Veja

   3. La partenza

   La partenza per il Ponte di Veja avviene di buon mattino in un’atmosfera agreste, fresca e carica di aspettative. Il silenzio domina sovrano. La giornata lavorativa non è ancora iniziata. Solo i cupi suoni dei corni, il fischiar dell’“euro” mattutino e il lontano latrar dei veltri alla caccia rompono (si fa per dire) il silenzio della campagna. Il racconto del viaggio inizia dalla Val Pantena, un po’ prima di Grezzana,  giacché il poeta vede «le doppie torri» di Cuzzano e l’abitato collinare di Romagnano.

   Il desiderio di raggiungere il Ponte, «raro lavor di cento lustri, e cento», è quasi incontenibile. Non si ponga più tempo in mezzo e si allontani ogni pigrizia, sembra suggerire l’abate Pellegrini: «Su presto s’esca da le mute stanze, / e andiamlo a contemplar». Egli stesso, nelle pagine introduttive al poemetto, ci informa di non averlo mai veduto.

   Già, ma a muovere gambe e entusiasmo del conte-abate non è solo desiderio estetico, curiosità scientifica o, ancora, romantico amore per la natura, c’è un’altra e più forte motivazione, uno sprone che si impone su tutti gli altri: «Dimice il vuole»!

Dimice? E chi è costei?

   Dimice è fin troppo facile anagramma di Medici e dietro si “cela” una straordinaria figura femminile, centro delle attenzioni poetiche di Pellegrini. E’ Chiarastella da Persico de Medici, moglie di Gasparo de Medici e madre di Marietta de Medici. Partecipa all’escursione assieme al suo «figlioulin» Inalco (altro anagramma: Inalco sta per Nicola).

   Fatto si è che l’abate Francesco Luigi Pellegrini dimentica il magnifico ponte e si volge ad un’altra meraviglia della natura: Dimice. L’interruzione della narrazione appena incominciata contribuisce a porre al centro dell’attenzione la dama. E gli attributi piovono copiosi e “sospetti”: è bella come il sole, ha dita candidissime, porta rustica acconciatura, ben tornite sono le gambe e piccolo il piede. Insomma non le manca niente, i canoni della bellezza femminile sono tutti rispettati! E come se ciò non bastasse, alla bellezza del corpo si aggiunge la forza del carattere e una personalità trascinatrice. Ecco una decina di versi che la ritraggono e, vivaddio, la rendono immortale:

   «Dimice bella al par del primo raggio, / che omai spunta del Sol. Ella da gli occhi / con dita di neve il resto terge / d’un languidetto sonno: e immantinenti / di rustico cimier preme le trecce / sparse in parte sul nudo omero, in parte / strette di nastro, che le fregia, e annoda. / Indi raffrena al rilevato fianco / gli ondosi lembi de la veste, e sciolta / la ben tornita gamba, e il picciol piede / desta la schiera, e la garrisce, e incita a divorar la via».

   Dimice, dunque, anima dell’escursione, comunica entusiasmo in ogni suo gesto, in ogni suo richiamo, ma la via è ardua e mette in difficoltà i gitanti, costretti, nonostante gli entusiasmi della donna, a procedere con lentezza. Così arrivano Alcenago e l’aprico (esposto al sole, solatio) Fane. Ma il racconto non stacca un attimo dalla vera meraviglia dell’escursione, Chiarastella de Medici: per ben tre volte in quattro versi ricorre il pronome “teco” («Io sono con teco… teco veder m’è dolce: e dove dolce / non fia teco il vagar?). Quasi un “ritorno del rimosso”.

   Riusciranno i nostri settecenteschi escursionisti a raggiungere l’agognato Ponte? E che ruolo assumerà via via Dimice lungo questa escursione? E quali eventi si verificheranno nel corso della giornata?

Lo vedremo presto.

Aldo Ridolfi (continua)

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