10. Veja e Cerèo: una storia d’amore

…a cura di Aldo Ridolfi

Poesia

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Ponte di Veja

Giuseppe Luigi Pellegrini, Abate e Conte, in escursione al Ponte di Veja

   10. Veja e Cerèo: una storia d’amore

   L’abate Pellegrini ha il primo incontro con la struggente storia d’amore consumatasi sulle colline nei dintorni di Fane, all’interno della grotta che egli, coraggiosamente, si era apprestato a esplorare. Entro quello speco, in un’atmosfera terrorizzante, il serpente con gli occhi di «bragia» – terribili come quelli del dantesco traghettatore infernale: «Caron dimonio, con gli occhi di bragia» (Inf., III, 109) – illumina una lapide sulla quale sono incise «dolenti note» (altra reminescenza dantesca: Inf., V, 25).

   Non è cosa da poco, perché l’iscrizione ricorda la vicenda di due amanti, Veja e Cerèo, entrambi pastorelli in quelle lande selvagge ma, come abbiamo già ampiamente visto, frequentate da popolazioni dotate di un’umanità autentica e profonda. Le parole di Pellegrini non accennano ad incertezze, vanno dritte al cuore della vicenda: «E rammentai lo speco, / dove un dì per Cerèo la giovin / Veja arse d’amor». Un destino crudele, però, decreta la fine di quell’amore alpestre per il quale l’abate aveva usato un aggettivo, «giovin», e un verbo, «arse» che da soli immettono in quella dolce, magica e unica penombra dove solo i giovani amori hanno diritto di stare. Tutto sarebbe finito nel più immeritato oblio se «pria di morir la tremante mano», quella di Cerèo, non avesse fissato, a perenne memoria, i termini di quella tragedia sul sasso nascosto nella grotta. Ancora una volta la scrittura come supremo baluardo all’incalzante e terribile oblio.

   Il ponte di Veja, dunque, ricorda la pastorella, mentre il monte Cerèo, poco lontano da lì, ricorda il giovane innamorato Cerèo. La visita a quel sito, per noi lettori e per lo stesso Autore, non potrà più limitarsi, da quando si capisce esistere una straordinaria storia d’amore, alle sole questioni geologiche o storiche, ma dovrà fare i conti anche con questa mitica vicenda, insieme bellissima e tristissima.

E’ primavera sulle montagne. E la vita, con la bella stagione, esprime intensi i sentimenti della gioia e della speranza. I due giovani si conoscono, si guardano, si incontrano tra sacrosanti desideri e comprensibili imbarazzi. Ma la stupenda età gioca a loro favore, e il futuro appare splendido.

   I nubifragi primaverili, però, e l’asprezza dei luoghi pongono alla loro felicità un ostacolo inatteso e tragico. Le «dirotte» (incessanti) piogge «crebber» (gonfiarono) «immenso torrente» che trascina a valle, durante una notte tempestosa, la capanna di Veja e, con essa, la giovane pastorella. Al mattino, l’ignaro Cerèo, da più elevata rupe, si rende conto del disastro. Le parole dell’abate – secondo me intrise già di spirito romantico – dipingono magistralmente il dramma: Cerèo «il flutto mira / torbido rivoltar sparse fra gorghi / le vesti, e l’altre a i dì più gai serbate / spoglie de l’idol suo!»

   Cerèo è pietrificato dal dolore: «Ritto su piedi, mutolo, pensoso / immoto gli occhi, irto i capegli, e a guisa / d’uomo che in sasso si trasforma. Meno / viene lo spirto». Dove «sasso» assume una forza tragica inequivocabile. Pellegrini racconta la disperazione di Cerèo cogliendo sul corpo vivo del pastorello l’inguaribile dramma interiore che lo porta alla follia. Nei confronti della quale, così vicina a quella ben più famosa raccontata dall’Ariosto, Pellegrini, per una sorta di umano rispetto che vien prima di ogni valutazione etica, dimostra intima e partecipe comprensione: «Invan trascorre / burroni, e balze, l’odiato raggio / rifuggendo del Sol, che infin ritorna / al fatal loco».

   Qui l’animo di Cerèo non regge e il giovane unisce il suo destino a quello dell’amata Veja. C’è nell’abate Pellegrini, una delicatezza che oserei definire materna nel raccontare il doloroso destino del giovane innamorato. Lo fa con una sintesi estrema, quasi che ogni parola in più possa incrinare la bellezza e la generosità di un gesto estremo, condannabile in sé, ma qui riscattato dall’amore, perché la perdita dell’amata è dramma così grave da impedire un qualsiasi futuro; scrive l’abate: «Pria che disperato / dolor lo meni a chiudersi nel fondo / del vicin antro sepolcrale, il guardo / già moribondo per l’ultima volta / cader lascia su le acque ognora sorde / a i gridi de gli amanti…».

   E già sulla lapide illuminata dal serpente, con lingua parsimoniosa ma ugualmente tragica: «Ella a un punto perì de l’acque / rapina ingiusta. Io giusta preda infine / pero (muoio) qui del dolor». Quel luogo sia maledetto, al punto che chi incide la lapide invita lo stesso gregge a fuggire il sito: «Gregge paterne / conscie di quel destin, che con lei sola / tutto rapimmi, o voi paterne gregge, / fuggite il lito infame,…».

   Ogni altra chiosa appare inutile; rimanga il mito di Veja e Cereo a “certificazione” di uno dei più bei sentimenti umani.

Aldo Ridofi (continua)

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