Sepúlveda Luis – “Il vecchio che leggeva romanzi d’amore”

…a cura di Elisa Zoppei

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Carissimi eccoci qua. È scoppiata l’estate con afa soffocante e temporali rinfrescanti. È giunto alfine il tempo, per chi se le può permettere, delle sospirate vacanze, e per chi si riposa a casa auguro abbondanti raffiche di piacevoli letture. Ho rispolverato fra i miei ricordi una bella storia narrata in uno dei romanzi che mi hanno regalato più di una boccata di aria pura e sono felice di condividerla con voi perché vi voglio bene. L’autore è uno dei nostri beniamini, soprattutto caro ai bambini per la indimenticabile, commovente, esilarante Storia di una Gabbianella e del gattoche le insegnò a volare: Luis Sepúlveda.

L’altro dei suoi libri che ho amato di più e che vi presento come testimonianza d’amore per la lettura, capace di farvi sentire partecipi del mondo anche vivendo in appartata solitudine, è il suo romanzo d’esordio, Il vecchio che leggeva romanzi d’amore, apparso per la prima volta in Spagna nel 1989 e pubblicato in Italia dall’editore Ugo GUANDA, Narratori della Fenice, in più edizioni a partire dal 1993 fino all’ultima del 2011.

Sepùlveda Luis

Qualche notizia biografica

La passione per l’esistenza  libera, avventurosa e battagliera che ha conformato la vita di Luis Sepúlveda, ha radici nei perseguitati politici della sua famiglia. Il nonno paterno, un anarchico andaluso militante nelle file dei rivoltosi del suo Paese, sotto il nome di battaglia di Ricardo Blanco, e condannato a morte, era fuggito in America del Sud. Luis a sua volta nacque il 4 ottobre del 1949 in una camera d’albergo a Ovalle in Cile, mentre i suoi genitori sfuggivano all’inseguimento degli sgherri sguinzagliati per motivi politici contro suo padre, dal ricco nonno materno. Luis crebbe a Valparaíso, in Cile, con il nonno paterno e con uno zio, anch’egli anarchico, che oltre a passargli la passione per l’attivismo politico, lo introdussero ai romanzi di avventura di Salgari, Conrad, Melville. Così scoprì molto presto la sua vocazione a scrivere e vi rispose con trasporto, facendo della scrittura la sua arma potente per esprimere le proprie idee in aperto dissenso con il regime presidenziale cileno. I primi passi da scrittore li mosse al liceo di Santiago, dove pubblicava qualche racconto e poesie sul giornalino degli studenti. Per conto suo però scriveva racconti di carattere pornografico che ciclostilava in proprio e vendeva ai compagni di scuola. A suo dire, quei racconti hanno contribuito non poco all’equilibrio ormonale dei suoi compagni di liceo.
Nel 1964 entrò nella Gioventù comunista cilena, e i suoi racconti e poesie divennero celebri nelle riunioni sindacali, in scioperi e manifestazioni. Nel 1969, vinse il prestigioso Premio Casa de Las Américas, grazie a un amico che aveva raccolto i suoi racconti e, con il titolo di Cronicas de Pedro Nadie, li aveva spediti all’Avana. Questa vittoria gli procurò l’invidia degli scrittori “accademici” che lo disprezzavano, ma suscitò anche la stima di Francisco Coloane (1910-2002) uno dei più grandi romanzieri latino americani del XX secolo, suo idolo da sempre, dalle opere del quale aveva mutuato  il senso della grandezza e della potenza della natura, oltre che del rispetto per ogni forma di vita sulla terra. Inoltre ebbe una borsa di studio per l’università statale Lomonosov di Mosca, da cui venne espulso perché trovato a letto con la moglie di un dirigente dell’Istituto di ricerche marxiste.
Entrato nel 1973, nella struttura militare del Partito socialista, Sepúlveda diventò anche membro della guardia personale di Salvador Allende. Il giorno del colpo di stato dell’11 settembre 1973, stava sorvegliando un acquedotto che poteva essere fatto saltare con la dinamite.
Il 5 ottobre, all’indomani del suo compleanno, fu catturato e torturato. Passò sette mesi in una cella minuscola in cui era impossibile stare anche solo sdraiati o in piedi.
Nel 1976 la sezione tedesca di Amnesty International aveva lanciato una serrata campagna per la sua liberazione, suscitando un vasto clamore che intralciò la giunta militare cilena. Non era più possibile eliminarlo in silenzio, e alla fine decisero di liberarsi da quei “calunniatori tedeschi” concedendo gli arresti domiciliari. Dopo quasi tre anni, Luis Sepúlveda tornava a vedere il tanto agognato oceano, con molti denti in meno e cinquanta chili di peso.
Andò a Valparaíso, per organizzare uno sbarco di armi, che si sarebbe rivelato l’ennesima invenzione dei dirigenti in esilio. Ma nella città portuale riscoprì la vecchia passione, il teatro, improvvisando rappresentazioni clandestine contro la dittatura. Tempo un anno, e fu ricatturato. Condanna: ergastolo… Poi, sempre su pressione di Amnesty International, fu commutata nella pena di otto anni d’esilio. In tutto passò due anni e mezzo in carcere.
Il 17 luglio del 1977 gli fu permesso lasciare il Cile. Rimase per poco tempo in Argentina, poi il Brasile e finalmente arrivò a Quito, Ecuador. E qui Sepúlveda conobbe un mondo che tanta influenza avrebbe avuto nei suoi destini di scrittore, oltre che di militante totale ed estremo in favore di una natura saccheggiata. Per sette mesi visse nella selva amazzonica con gli indios Shuar, di cui ha imparato la lingua e il rispetto per i delicati equilibri della Madre Terra.
Da quell’esperienza, anni più tardi, avrebbe tratto il suo libro di maggior successo internazionale, Il vecchio che leggeva romanzi d’amore. Diventò anche per un certo periodo membro dell’equipaggio di Greenpeace. Dal suo impegno ecologista, nacque “Il mondo alla fine del mondo”, (1994) uno dei suoi libri migliori.
Dopo una vita errabonda fra Spagna e Francia, da qualche tempo si è trasferito in una casetta ai margini della Foresta Nera, pur mantenendo un legame residenziale “tra Amburgo e Parigi”.
Oggi potrebbe rientrare in Cile, ma non ne sente alcun bisogno.
Sepúlveda ha molto vissuto, attraversando esperienze forti, intense e drammatiche  che gli hanno dato materia viva per i suoi romanzi. Ci fa piacere scoprire che uno scrittore della sua statura tradotto in quindici paesi, amato da uno sterminato numero di lettori, che parla in un simpatico accento italiano, non si ammanta in un’aura fulgente di gloria, ma prediliga una vita come quella di tutti, fatta di amore, moglie, figli, amici…
Per lui, infatti, uno scrittore è qualcuno, uomo o donna, che si sente a suo agio dentro la vita, nelle cose più usuali e insignificanti. Secondo lui è vero scrittore chi per esprimere le sue opinioni non si avvolge nel limbo intellettuale che lo separa dagli altri. Anche se ama moltissimo scrivere, ci sono momenti in cui preferisce passeggiare con i suoi figli, fare l’amore, pescare, giocare con il cane, cucinare per una cena con amici. Non sacralizza la letteratura, che pure gli riserva momenti felicissimi. (Dedica Festival, Conversazioni con Bruno Arpaia in www. ilpopolopordenone.it).
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Titolo originale:  “Un viejo que leía novelas de amor”

 

In primis l’autore dedica il Premio Tigre Juan  assegnato al romanzo, a Chico Mendes , caro amico, morto in difesa del cuore verde amazzonico, unico mondo verginale che sta sparendo sotto i colpi di machete della barbarie umana; nella seconda pagina, altra dedica ad un capo Shuar che in una notte di racconti traboccanti di magia, gli aveva rivelato alcuni particolari del suo sconosciuto “eden equatoriale”, paradiso, armonia della natura, tesoro inestimabile da salvare!
Il resto del libro è un canto d’amore per uno degli ultimi luoghi incontaminati del mondo. Canto che è allo stesso tempo ode poetica e grido di angoscia, invocazione di aiuto e denuncia degli insani soprusi arrecati da criminali in cravatta e abiti di buon taglio, che  dicono di agire in nome del “progresso”.
Un bel libro non ”ti” invecchia mai: questo il messaggio di Antonio José Bolivar il protagonista della storia che incontriamo quando, ormai vecchio, abitava in una angusta, disadorna capanna di canne, poco lontano dal paese El Idilio situato ai margini della foresta ecuadoriana e aveva appena scoperto per caso di saper leggere. Fu la scoperta più importante della sua vita, si rese subito conto che quella era l’arma giusta per combattere gli inevitabili acciacchi della vecchiaia.
A procurargli i romanzi d’amore che amava più di tutti gli altri libri conosciuti durante una lunga ricerca nella biblioteca di El Dorado, è Josephina una ragazza di Esmeraldas, dalla lucente pelle nera, amica di piacere del simpatico dentista ambulante, il dottor Rubicondo Loachamìn. Questa figura di anarchico dentista dei poveri diavoli, dal linguaggio scurrile, un po’ maniscalco e irriverente, figlio illegittimo di un emigrante, perennemente arrabbiato con le autorità e il governo, fa pensare a una sorta di ironico autoritratto dell’autore.
Nella solitudine della sua capanna Antonio José Bolivar, per combattere il mal di schiena, leggeva stando in piedi, appoggiato a un tavolo con gambe più alte del normale.

           “Leggeva lentamente, mettendo insieme le sillabe, mormorandole a mezza voce
come se le assaporasse e quando dominava tutta quanta la parola, la ripeteva di
seguito. Poi faceva lo stesso con la frase completa, e così si impadroniva dei
sentimenti e delle idee plasmati sulle pagine”. (Cap. III° p.35)

Il libro richiama continuamente immagini di lettura capaci di riempire di significato la vita di un vecchio carico di anni, di amarezze e di solitudine. Questa  testimonianza letteraria, così intensa e reale, conferma che la necessità più forte, l’impresa più difficile consistono nel trovare un significato alla nostra vita.
Oltre a questo ci predispone  a un viaggio affascinante e misterioso, immergendoci nel paesaggio amazzonico con i gringos, gli jibaros, i tigrillos, per imparare con Antonio Josè la vita della foresta, accostandoci alle abitudini indigene, scoprendo un patrimonio sapienziale inestimabile, vivendo dentro la grande foresta in accordo intimo con i ritmi e i segreti della natura, mai abbastanza capiti da chi vive nella cosiddetta civiltà del benessere.
Le differenze tra chi “sa” della foresta e chi no, saltano agli occhi durante la spedizione alla ricerca del tigrillo, che ha sbranato l’uomo bianco, cacciatore di pelli. Il vecchio sa come muoversi tra le insidie della foresta, comprende che la femmina del tigrillo ha ucciso per vendicare la morte dei suoi piccoli. E ne ha compassione. Ci si rende comunque consapevoli che noi gente “civilizzata” siamo spesso troppo arroganti per apprezzare altri modi di accomodarci nel mondo.
La scrittura lineare e sobria, senza incoerenze temporali o “bellurie” linguistiche, ci regala pagine sorprendenti e imprevedibili dove colori e odori sono vividi e rimangono impressi, nella nostra  pelle di lettori innamorati.

Elisa

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