Deledda Grazia – “Cosima”

…a cura di Elisa Zoppei

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“Cari amici lettori, dopo la pausa estiva, desidero festeggiare la ripresa del nostro Angolo della Lettura con la presentazione di una grande scrittrice vissuta a cavallo fra otto e novecento, unica donna italiana, cui nel 1926 fu conferito il Premio Nobel per la letteratura: Grazia Deledda. Rivisitando la sua nutrita produzione narrativa minore e maggiore posso affermare che la Deledda da molti di noi è solo parzialmente conosciuta magari solo per aver letto a scuola “Canne al vento”, forse anche con poco entusiasmo. Andando oltre le magre letture scolastiche e camminando sulle tracce dell’illustre donna che seppe dare una voce potente ad un mondo atavico sconosciuto del Nuorese sardo, grazie all’amica prof.ssa Anna Solati, mi sono imbattuta nel libro della saggista storica dell’arte, studiosa della narrativa deleddiana,  Maria Elvira Ciusa “GRAZIA DELEDDA. Una vita per il Nobel” (Carlo Delfino Editore, 2017). Sono pagine di vita che aprono uno straordinario sipario di riscoperta e rivalutazione di una immane opera letteraria che portò alla luce dell’Europa e oltre, una Terra popolata da gente fiera, sana e forte, ma chiusa dentro aspri confini gelosi della propria ancestrale identità. Ci ricordano che romanzi come Cenere ed Edera, passati attraverso anni di splendore, nella prima metà del secolo scorso, sono stati tradotti in film: il primo, muto, nel 1916, interpretato niente meno che da Eleonora Duse; il secondo, sonoro, nel 1950 con l’attore Fosco Giacchetti. Seguirono nel 1952 “Amore rosso” tratto da “Marianna Sirca” e nel 1958 la miniserie dello sceneggiato televisivo “Canne al vento” interpretato da Carlo d’Angelo nel ruolo del fedele servo Elfix e diretto da Mario Landi.
Ho scelto però di presentare qui il suo ultimo libro, “Cosima quasi Grazia ” (Ledizioni, 2015), il racconto vero della sua vita vera.

Grazia Deledda

Note biografiche

Grazia Deledda, che vinse il Nobel per la letteratura nel 1926 dopo Carducci e prima di Pirandello, nacque a Nuoro il 28 settembre 1871, quinta di sette tra figli e figlie di una famiglia agiata. Il padre, Giovanni era un valente allevatore di ovini. Intelligente uomo d’affari e di commercio faceva vivere la famiglia nel benessere materiale e nel rispetto della tradizione, ma con aperture culturali e sue personali ambizioni poetiche: era un appassionato cantadore in lingua sarda. La madre, Francesca Cambosu, molto più giovane di lui, era una donna minuta, bella, di natura mite e riservata, assorbita nell’accudimento di casa e prole.
Nell’inverno svedese del 1926, nella Sala dei Concerti dell’Accademia Reale Svedese a Stoccolma, la calda voce di una minuta donna italiana scandiva un discorso memorabile, in ringraziamento del più ambito Premio Letterario mondiale. Era Grazia Deledda, dai caratteristici tratti somatici sardi, nella corporatura e nei lineamenti del volto (I sardi sono una etnia dotata di un patrimonio genetico se non unico al mondo quanto meno assai singolare come dimostrano numerosi studi scientifici applicati a diverse discipline. Davide Nurra): piccola di statura occhi neri, sguardo serio, mento volitivo, atteggiamento tranquillo, sicuro.
Ecco le sue parole: «Sono nata in Sardegna; la mia famiglia è composta di gente savia, ma anche di violenti e di artisti produttivi».
Quel discorso ha segnato il traguardo poetico narrativo di Grazia Deledda, la cui fama di scrittrice intensa e feconda del secolo scorso si diffuse in tutto il mondo. Viene definita narratrice prorompente, anche se, per certi aspetti, non fu molto favorita dalla terra nuorese incassata fra tradizioni ancestrali e prevenzioni ataviche. Tanto più che apparteneva a un’epoca niente affatto incline a premiare le ambizioni femminili di cimentarsi in arti non domestico donnesche.
La sua vita fino alle soglie della giovinezza trascorse apparentemente tranquilla se non fosse stato per quel fuoco che le bruciava dentro di scavalcare gli orizzonti dell’angusta isola e appropriarsi di quei mondi che incontrava tra le pagine dei libri che leggeva avidamente fin da quando, dopo aver frequentato la quarta elementare, poté proseguire gli studi in casa con un precettore. Di fatto la sua formazione, soprattutto letteraria, è stata da autodidatta e fu la messe copiosa della grande letteratura trafugata alla biblioteca paterna che le innestò la precoce vocazione, che la costrinse a scrivere. Sì, come racconta in Cosima , per lei scrivere era un bisogno, anche fisico, il più forte della sua vita. Di temperamento quieto e trattenuto, visse una giovinezza segnata da una serie di drammi familiari molto dolorosi: il fratello maggiore, Santus, abbandonò gli studi e divenne un alcolizzato, il più giovane, Andrea, fu arrestato per piccoli furti. Il padre morì per una crisi cardiaca quando Grazia aveva soltanto 21 anni e la famiglia dovette affrontare serie e impellenti difficoltà economiche. Quattro anni più tardi morì tra le sue braccia la sorella Enza (Vincenza). La giovane Grazia aveva nel contempo iniziato a scrivere collaborando con vari giornali e riviste e pubblicando i suoi primi racconti, guadagnandosi pian piano una discreta notorietà. Nel 1895 uscirono due romanzi degni di ricordo: Anime oneste e La via del male nei quali esprimeva l’aspirazione di poter narrare la vita e le passioni del suo popolo così fiero e primitivo, vilipeso e ancor peggio ignorato dal mondo civile. Innamorata della sua isola, rorida di sublime bellezza selvaggia, nutriva il sogno di creare una letteratura completamente ed esclusivamente sarda, rinvigorendola negli straordinari capolavori di Elias Portolu, (1900), Cenere (1904), l’Edera (1908), Canne al vento (1913), Marianna Sirca (1915), L’incendio nell’uliveto (1917), La madre (1920), Naufraghi in porto (1920), solo per citarne alcuni, poiché raggiunse lo strepitoso numero di 56 romanzi.
Nell’ottobre del 1899 la scrittrice realizzò un altro sogno lungamente accarezzato nella solitudine degli anfratti boscosi della Barbagia, fra le stanze scure della grande casa di pietra odorose di calce e di frutti diversi ad ogni stagione. Si trasferì a Roma la città eterna, sfolgorante di vita e di luce. Coronò anche il suo sogno d’amore sposando Palmiro Madesani, funzionario del Ministero delle Finanze, conosciuto a Cagliari due mesi prima. Palmiro sarà al suo fianco, sostenendo la sua arte, intrecciando insieme a lei relazioni importanti dentro e fuori Italia per farla conoscere all’estero. L’unione fu allietata da due figli Sardus e Franz, ma pur vivendo con grande dedizione gli obblighi e gli affetti famigliari, non trascurò mai da vera professionista la sua scrittura, che curò sempre con la disciplina di un combattente sul campo di battaglia.
In quella corrente letteraria che ebbe il nome di Verismo, le storie scaturite dall’anima sarda deleddiana, così ricche di passioni primitive entrarono a pieno diritto nell’occhio favorevole della critica più illuminata e furono tradotte nelle più importanti lingue europee. La sua arte narrativa venne altamente riconosciuta anche dalla Giuria del premio Nobel che le decretò l’ambito Premio in virtù della «… sua potenza di scrittrice, sostenuta da un alto ideale, che ritrae in forme plastiche la vita quale è nella sua appartata isola natale e che con profondità e con calore tratta problemi di generale interesse umano».
Un tumore al seno di cui soffriva da tempo la portò alla morte il 16 agosto del 1936, quasi dieci anni dopo la vittoria del Nobel.

Cosima

Cosima

È un romanzo autobiografico apparso nel 1936 sulla “Nuova Antologia. Rassegna di lettere scienze e arti”, pochi mesi dopo la morte dell’autrice e poi, nel 1937 rimesso in circolazione a cura di Antonio Baldini dalla casa editoriale dei F.lli Treves, al tempo già molto solida. È raccontato in terza persona in quanto l’autrice osserva e commenta da fuori gli accadimenti che si svolgono dentro lo scenario esistenziale della protagonista: Grazia Maria Cosima Damiana, prima bambina, poi giovinetta, e infine al suo ingresso nella maturità. La Deledda  ci fa entrare nei più riposti recessi di quel mondo, dalle cui radici succhiò, come la piccola Cosima, la linfa vitale della sua precoce straordinaria arte narrativa. Nell’incipit, eccola nel vecchio quartiere nuorese di Santu Predu, sulla soglia della sua casa natale (oggi trasformata in museo), ad accoglierci nella calda grande cucina che “…come in tutte le case ancora patriarcali, era l’ambiente più abitato, più tiepido di vita e d’intimità. C’era il camino, ma anche un focolare centrale, segnato da quattro liste di pietra: e sopra, ad altezza d’uomo, attaccato con quattro corde di pelo, alle grosse travi del soffitto di canne annerite dal fumo, un graticcio di un metro quadrato circa, sul quale stavano quasi sempre, esposte al fumo che le induriva, piccole forme di cacio pecorino, delle quali l’odore si spandeva tutto intorno”.
Seguendo quell’odore che eccita il nostro palato percorriamo con gli occhi l’interno della dispensa dove erano ammassati “mucchi di frumento, di orzo, di mandorle, di patate …che occupavano gli angoli, mentre una tavola lunga era sovraccarica di lardo e di salumi, e intorno i cestini di asfodelo pieni di fave, fagioli, lenticchie e ceci, facevano corte agli orci di strutto, di conserve, di pomidori secchi e salati e ai grappoli d’uva e di pere raggrinzite che ancora pendevano da una delle travi di sostegno del soffitto”.
Con l’inconfondibile arte di consumata narratrice l’autrice si fa seguire dal lettore su per le scale nella camera da letto austera con le finestre piccole e basse, dove nel trambusto della notte è nata una sorellina e il papà l’accompagna a vederla. La commozione estatica della bambina, ce la rivela già una piccola donna capace di grandi slanci e sentimenti profondi.
Ci si imbatte fra servi e serve, creature che agli occhi della bambina appartengono a un modo fuori dalla realtà: gente consacrata al servizio del padrone: chi si occupa degli animali, chi prepara la colazione ai bambini, il caffè e latte nelle tazze gialle e rosse. Uno in particolare servo pastore conosce le leggende dei monti e le racconta nelle sere d’inverno accanto a fuoco. Così l’infanzia di Cosima appare avvolta nel mondo del mistero del fantastico del sogno incantato. Specie la nonna, piccolissima fragile donna, le ricordava certe piccole fate che abitavano in piccole case di pietra, chiamate appunto Case delle piccole fate. Le conosciamo come le minuscole abitazioni preistoriche chiamate Domus de Jana.
In ogni capitolo di questo libro fino all’ultimo (sono 18) ci imbattiamo nella sorprendente fresca energia di un racconto stimolante, sempre nuovo. Si passa attraverso grandi colpi di scena, avvenimenti importanti come la morte del padre, e le deludenti sconfitte dei fratelli ai celati batticuori del primo amore, alla viscerale passione di scrivere, alle ansie e alle gioie che ne derivano. Ma ecco che la nonnina piccola come una fata dal volto di santa le fa visita in sogno e le annuncia qualcosa che Cosima attende da sempre e che le cambierà completamente la vita. Che cosa sarà? Scopritelo e mediante il piacere di una lettura di pagine eccezionali, degne di essere annoverate fra i grandi capolavori letterari di ogni tempo.
Buona lettura

Mi pregio di ospitare in questa rubrica le recensioni dei romanzi Canne al vento e L’incendio nell’uliveto, curate dallo scrittore Andrea Bicchierai, autore di Nessuno è perfetto, romanzo  di carattere vivacemente e simpaticamente autobiografico”.

Elisa 

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Andrea Bicchierai

Note biografiche

Nato a Firenze nel 1958, non ancora trentenne approdò a Verona dove fu assunto come direttore del centro sportivo Figurin, Dopo quattro anni iniziò una nuova  avventura lavorativa passando attraverso diversificati servizi di consulenza alle aziende. Diede così una svolta alla propria vita con scelte lavorative che gli consentivano di avere più tempo per sè e iniziò a scrivere, quasi per diletto, con il desiderio di raccontare un capitolo delle sue esperienze giovanili. Così uscì il primo romanzo, Nessuno è perfetto, (ScriptaEdizioni) che accrebbe in lui il desiderio di mettersi alla prova seriamente, avendo alimentato nel corso degli anni un sentimento profondo per la scrittura con la lettura dei romanzi di Garcia Marquez, una passione che oggi si attualizza nella scrittura dei suoi romanzi, riuscendovi brillantemente.

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CANNE AL VENTO
Di Grazia Deledda

Un romanzo dedicato alla sua terra, che Grazia Deledda ambienta tra le colline aspre della Barbagia, dove il paesaggio assume i colori intensi della valle e del monte che circondano la casa decadente delle tre dame Pintor (Noemi, Ester e Ruth) appartenenti a una nobiltà ormai prossima alla miseria dopo il decesso del barone padre. Una terra che si illumina dei colori accesi al tramonto, laddove, ai margini del poderetto, l’ultimo appezzamento rimasto di loro proprietà, si erge il canneto battuto dal vento.
Efix, il servitore fedele da una vita, custodisce e coltiva il poderetto come se fosse cosa sua, consapevole del valore dei prodotti che ne ricava, senza i quali non sarebbero in grado di mantenersi. È la figura centrale del romanzo, attorno al quale ruotano tutti i personaggi. Uomo di fede e devoto alle sue padrone, capace di piegarsi sotto il peso delle sue responsabilità, come canne al vento.
L’apparizione di Giacinto (detto Giacintino), il figlio di Lia, la quarta delle sorelle Pintor scappata in giovane età per sfuggire alle imposizioni e ai soprusi del padre, genera uno sconquasso nel ritmo monotono di vite devote a Dio, al quale le sorelle Pintor non sembrano voler rinunciare.
Giacinto prenderà a prestito dei soldi da Kallina, l’usuraia del paese, firmando cambiali a nome della zia Ester. Il disonore peserà come un macigno sul destino dei vari personaggi, portando al decesso di Ruth, al rifiuto di Noemi verso il nipote odiato e amato, e alla partenza di Efix, che si vedrà costretto ad abbandonare la casetta a ridosso del poderetto per  girovagare come un mendicante nel tentativo di espiare la propria colpa.
La figura dello zio Predu, uomo ricco della famiglia, da sempre interessato all’acquisto del poderetto, assume un ruolo preponderante nella storia quando inizia ad avanzare i suoi propositi nei riguardi di Noemi, la più giovane delle sorelle Pintor, facendo leva sulle ormai evidenti difficoltà economiche in cui versano, a maggior ragione dopo quanto accaduto per colpa di Giacinto.
Le vicende lasciano ampi spazi alla descrizione magistrale dei paesaggi, ai quali Grazia Deledda sembra attribuire una vitalità che spesso si fonde con i personaggi del romanzo, a volte sovrastandoli altre mettendoli in risalto, come nelle feste paesane dove, per iniziare le danze, tutti attendono il tramonto e la fisarmonica di Zuannantò, il giovane fratello di Grixenda – a sua volta innamorata di Giacinto -. Paesaggi di montagne, di valli, di colline illuminate al tramonto, intente a riflettere un sole che tutto colora d’argento, o cieli notturni dove la luna accende i falò.
Tutto, o quasi, tornerà al suo posto, quando Noemi accetterà la proposta di matrimonio, piegandosi al suo destino.
Il vento agita le anime alla ricerca del perdono ai propri peccati, reali o presunti, “mentre nel silenzio della notte le canne sussurrano la preghiera della terra che si addormenta”.
Andrea Bicchierai

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L’INCENDIO NELL’OLIVETO
Di Grazia Deledda

Una saga famigliare costruita attorno a nonna Agostina, figura carismatica e matriarcale, che tutto osserva e tutto decide dal suo angolo vicino al camino, con gli occhi stanchi “come una luce dal profondo di una grotta”.
L’intensità dei dialoghi fa il pari con la descrizione dei personaggi, costruiti ad arte e guidati da una regia sapiente che trova fondamento nel dovere e nel rispetto, a cui fa difetto il povero Juanniccu, figlio cinquantenne senza arte né parte, la cui dedizione al bere gli consente di dire ciò che gli altri nascondono a se stessi, incapaci di ribellarsi a un destino disegnato dalla volontà di nonna Agostina e da un credo al quale è difficile sottrarsi: “i padroni con i padroni e i servi con i servi”, come ripete la serva Mikedda, quasi fosse un mantra.
In uno specchio di identità poliedriche, assuefatte ciascuna all’obbligo di asservire al proprio ruolo nella  disciplina famigliare, i personaggi coinvolti consumano le loro pene  nella condizione di chi vorrebbe ma non può, nascondendo agli altri i propri turbamenti, fino alle rivelazioni di Juanniccu che svela i retroscena durante la cena organizzata per definire la data delle nozze tra Annarosa e Stefano.
Tre generazioni a confronto: nonna, madre, nipoti, figli e figliastri, con i padri in taluni casi deceduti anzitempo, e quelli sopravvissuti ancora interessati a riprendere moglie per accudire il focolare domestico. Nina, la nuora di nonna Agostina, rimasta vedova troppo presto e considerata al pari di una serva per le sue umili origini, consuma in silenzio gli ardori nei riguardi di Stefano, assai più giovane di lei, con il quale ha scambiato solo sguardi fuggevoli vicino al letto delle madre accudita in punto di morte; Annarosa, la figliastra di Nina, che il padre (poi deceduto) ha sposato in seconde nozze, scopre di non potersi concedere a Stefano fintanto che i suoi pensieri amorosi sono rivolti a Gioele, un giovane di famiglia povera, migrato altrove per sfuggire alle pene d’amore; Stefano, unico laureato in uno scenario contadino e pastorale, è costretto a confrontarsi con il padre che ha deciso per lui ogni passo, e adesso vorrebbe sciogliesse la promessa con Annarosa dopo aver insistito per combinare il matrimonio.
Tutti, dopo le ammissioni di Juanniccu sotto l’effetto del vino, si troveranno a combattere con la propria coscienza, cercando rifugio…
La maestria poetica di Grazia Deledda descrive i paesaggi di una terra dura da lavorare ma rigogliosa di frutti, come a voler disegnare lo sfondo naturale della casa colonica e del cortile dove si consumano le vicende della famiglia Marini e dello zio Predu, padre di Stefano, anch’egli rimasto vedevo da poco, lasciando indefinita la provenienza delle proprietà che gli appartengono, nonostante abbiano sofferto la miseria in passato.
L’oliveto di proprietà della famiglia Marini assieme agli animali sono le principali fonti di benessere, che Agostino, nipote di nonna Agostina e fratello di Aurora, nonché figliastro di Nina, accudisce con precisione e puntiglio maniacale affinché nessuno gli sottragga manco un’oliva.
Quando la nonna Agostina apparirà smarrita in un silenzio che annuncia lo sdegno per aver perso l’onorabilità famigliare, e l’oliveto andrà a fuoco con il povero Juanniccu rinchiuso nella casetta da dove ha preso origine l’incendio, tutto sembra perso…
Il libro, a mio avviso, rappresenta un gioiello da conservare con cura per la capacità e l’equilibrio con i quali Grazia Deledda articola personaggi e dialoghi, attenta a riservare in ciascuno i sussulti delle anime in fermento.
Andrea Bicchierai

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