Risposta ai lettori 31 (espressioni dialettali)

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Risposta ai lettori 31 (espressioni dialettali)

In un recente incontro tra un gruppo di amici, è venuto fuori che le lingue ufficiali spesso erano all’origine poco ricche di vocaboli (tant’è vero che i rispettivi dialetti contribuirono non poco, nel corso del tempo, ad arricchirle). Questo, perché le lingue ufficiali — penso per esempio al tedesco, al francese, all’inglese, ma anche all’italiano — vennero scelte tra le lingue medievali più elitarie, usate per redigere atti ufficiali o per scrivere libri. Era naturale, quindi, che il vocabolario di queste ultime fosse limitato.

È fonte di meraviglia constatare quanti vocaboli vi fossero nel veronese (fino a mezzo secolo fa) per indicare una corda o cordicella. V’era la corda vera e propria, di vario spessore (usatissima nei giochi in strada delle ragazzine); ma v’era anche la sóga, grossa e robusta. Seguiva lo spago, utile per legare un pacco; quindi la gaéta, un tipo di spago molto sottile ma robustissimo. Avevamo, poi, il réve, corrispondente al refe italiano, terminando col cao, il filo di cotone per le cuciture domestiche.

Nel settore dei tappezzieri, si usava una gamma di chiodi. V’era il ciòdo vero e proprio, di solito lungo (6 o 7 cm), usato nelle vecchie case per appendervi il cappello o il cappotto. Seguivano i ciodini, piccoli chiodi molto usati dai ciabattini. Costoro, ma anche altri artigiani, usavano poi le semenzine o semensine, chiodi quasi microscopici. Un tipo particolare di chiodo era il rebatìn, di solito di alluminio, che una volta battuto schiacciava la capocchia appiattendosi. Graziosi chiodi erano, poi, le bròche, bullette di varie dimensioni con la capocchia molto decorata. Le più piccole, graziose anch’esse, erano le brochéte (dal ticchettio che faceva l’artigiano nel batterle deriva il modo di dire bàtar brochéta «battere i denti dal freddo»…).

Giovanni Rapelli

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