Nottegar Alessandro

…a cura di Giancarlo VolpatoPoesia

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Alessandro Nottegar

Medico, benefattore, Alessandro Nottegar nacque a Verona il 30 ottobre 1943 da una famiglia contadina, nono di dieci figli. Frequentò le prime quattro classi elementari alla Madonna di Dossobuono e, come i fratelli, era destinato al lavoro dei campi: ma la sua intelligenza convinse i genitori a farlo studiare; così, dalla quinta elementare sino alla fine delle medie, fu nel collegio dei Servi di Maria a Follina, nel trevigiano. Il padre lo avrebbe voluto sacerdote; quindi, frequentò il ginnasio a Monte Berico e, poi, a Isola Vicentina con un anno di noviziato. Quindi, nuovamente presso i Serviti a Firenze per cinque anni, finiti i quali andò a Roma, al Collegio “Marianum” per tre anni di teologia.
Da sempre convinto di non abbracciare la vocazione sacerdotale, prese la forza di uscire e ritornare a casa. A venticinque anni si ritrovò a dovere ricostruire da capo la sua vita. S’iscrisse alla facoltà di Medicina e Chirurgia di Padova e, intanto, conobbe la donna che sarebbe stata il valore più alto della vita dopo quello di Dio. Alessandro Nottegar e Luisa Scipionato si sposarono nel 1971: egli era al secondo anno di università e sulle spalle della moglie cadde il peso del sostentamento. Tutti e due, però, sognarono subito una famiglia aperta agli altri, una vita libera dalla trappola del denaro, una missione tra i più poveri. Si laureò nel 1977 e continuò la sua attività sociale a Castel d’Azzano.
Rifiutò qualsiasi posto di lavoro – che pure gli era stato messo a disposizione, grazie alla sua bravura – a Verona: gli sposi, che avevano messo al mondo due bambine, offrirono il loro lavoro gratuitamente all’Opera Don Calabria. Partirono, senza niente, solo – come la moglie ha sempre detto – con un pensiero che Alessandro ripeteva: “Abbiamo la fede, ci vogliamo bene. Che ci manca? A tanti manca tutto”. Era il 29 agosto 1978.
Alessandro con Luisa e le due bimbe, nel novembre di quell’anno, andarono a vivere in un paesino sperduto nelle sconfinate praterie del Mato Grosso do Sul, in Brasile: luogo senza strade, senza telefono dove almeno diecimila contadini, affamati e sfruttati, lavoravano per i fazendeiros, i padroni delle campagne, senza scrupoli né pietà. Egli era il primo medico in un ospedale da poco eretto: con pochi strumenti, scarsi medicinali. Nottegar vi lavorava di giorno e, di notte, andava per le campagne a curare i malati che non si potevano muovere. Questo luogo si chiama Anaurilȃndia e lì nacque la terza figlia dei due “missionari”. Oggi, in quel luogo, tutti ricordano quel giovane che non si irritava mai, che abbracciava tutti, che non voleva un denaro, che portava a casa sua i bimbi più disperati: una delle tante bimbe che i coniugi istruirono e fecero crescere ha raccontato dell’amore infinito che regnava in quella casa.
Dopo tre anni, era il settembre 1981, Alessandro e Luisa decisero di abbracciare una causa ancora più radicale. Si trasferirono a Porto Velho, nel nord del Brasile, a lavorare in un lebbrosario, lontano dal paese: qui i malati, abbandonati dai parenti, morivano di dolore e di disperazione aiutati soltanto da alcune suore. I coniugi, con le loro bimbe, non avevano casa e andarono a vivere in alcune stanze del lebbrosario dove le loro figlie piccole giocavano con i bambini lasciati soli. Incurante del contagio, lavorava giorno e notte, abbracciava i suoi pazienti, stava con i più piccoli insegnando loro a giocare, a scrivere e a leggere. Assisté, con la moglie che era sempre con lui, ad alleviare le sofferenze di chiunque ne avesse bisogno. Il medico che veniva ogni quindici giorni – mandato dallo stato – sparse voci pesanti su di lui e sulla sua famiglia: questi veniva pagato profumatamente e Alessandro Nottegar non chiedeva nulla a nessuno, semmai li aiutava anche nelle esigenze materiali. Così, quel veronese così buono e pieno di amore, fu costretto ad andarsene.
Quando alcuni malati, quasi miracolosamente guariti da Alessandro, furono chiamati a testimoniare per la causa di beatificazione, dissero chiaramente: “Mai nessuno fu come lui”, giurarono. Nel marzo del 1982, i Nottegar arrivarono a Plácido de Castro, un minuscolo paese dell’Amazzonia brasiliana al confine con la Bolivia; qui non avevano casa, né auto, né telefono e l’energia elettrica solo per qualche ora al giorno. L’anziano parroco li accolse nella canonica. Alessandro Nottegar visitava i malati nella sacrestia: ma non aveva antibiotici, quasi nessuna medicina; dalla porta di quella stanza guardava l’altare e supplicava il Signore di salvare i suoi pazienti: cosa che avvenne assai spesso. Il medico veronese, nel silenzio, passava ore a pregare affinché la sua opera portasse beneficio. Il “capo” del paese, Geronimo Brito, gli portava i malati a qualsiasi ora: egli era lì per loro. Questi testimoniò dicendo che “Alessandro non era solo un uomo”. L’unico medico che era andato in quel paese era stato ammazzato, ma Nottegar non temeva questi eventi.
Si ammalarono gravemente le sue figlie. Non v’era nulla che le potesse aiutare. Così, stretto dagli affetti della famiglia – che fu sempre il sole della sua vita – dovette ritornare a Verona. Qui i coniugi si trovarono senza casa, senza soldi, senza lavoro e con le bimbe ammalate. Una clinica privata – vista l’esperienza che il medico aveva acquisito – gli offrì un posto con molti denari: Alessandro Nottegar rifiutò dicendo che il suo lavoro era per chi ne aveva bisogno, non per chi aveva soldi. Finalmente fu assunto dall’ospedale di San Bonifacio: ma lo misero nel laboratorio di analisi cliniche e microbiologiche, lontano dai malati. Non si scoraggiò: “Io l’amore lo faccio arrivare attraverso le provette ai poveri ammalati lassù in corsia”. Una parte dello stipendio era destinato a coloro che erano nel bisogno.
Alessandro e Luisa avvertirono con forza la necessità di fare una comunità di vita fondata sull’accoglienza, sulla preghiera e sull’assistenza ai poveri. La morte del padre aveva lasciato al medico una somma, certamente troppo piccola per acquistare qualcosa. Allora, egli vendette i campi, mise i risparmi in banca intestandoli alla “Comunità Regina della Pace”, in attesa. La Provvidenza – già l’aveva detto San Giovanni Calabria – aiuta chi crede in essa; in un mese, il progetto pensato diventò realtà: arrivarono 700 milioni. Il 15 agosto 1986, sulle colline di Verona aprì la “Comunità Regina Pacis”.
Un mese dopo, ed esattamente il 19 settembre 1986, Alessandro Nottegar, sulla strada del ritorno da San Bonifacio, fu colto da un infarto fulminante: se ne andò, nei pascoli alti del cielo, all’improvviso, ma dove un posto gli era già stato fissato. Non aveva compiuto 43 anni. Luisa Scipionato rimase sola con le sue tre bambine. La sera stessa, una giovane coppia, Mario e Rita Granuzzo, decise di andare a vivere con loro: era nata, nel medesimo giorno della morte, la nuova Comunità.
Il 14 maggio 2007 fu iniziata la causa di Beatificazione di Alessandro Nottegar; fu proclamato Servo di Dio ed ora, dal 4 maggio 2017, egli è Venerabile con decreto promulgato da Papa Francesco.
La Comunità è formata da un centinaio di persone ed è formata da famiglie, laici, persone consacrate e sacerdoti: conta una sede sulle colline di Verona e una a Grezzana, una a Budapest, tre in Brasile (Feira, Fortaleza, Quixadà) e una a Medjugorje.

Bibliografia: Luisa Scipionato Nottegar, Tutto è niente di fronte all’amore: vademecum dei figli e degli amici della Comunità Regina Pacis, Verona, Comunità Regina Pacis, 2005; Coraggio fratello!: la vita e l’opera del dottor Alessandro Nottegar nel 20° del suo passaggio da questo mondo al Padre, Verona, Comunità Regina Pacis, 2006; Carla e Gianfranco Frinzi, Il dottor Alessandro Nottegar: l’ultimo al posto giusto, Verona, [Baschera Luigi], 2015; Saverio Gaeta, Alessandro Nottegar: il “mediano” della santità, Milano, SugarCo, 2015; Carla Nottegar, Nottegar, Alessandro, in Bibliotheca Sanctorum, Terza Appendice, Roma, Città Nuova, 2017, pp. 854-855; Dario Cervato, Venerabile Alessandro Nottegar, in Id., Verona agiografica. Dizionario storico dei santi, beati, venerabili, servi di Dio veronesi, Verona, Bonato ed., 2018, pp. 157-158.

Giancarlo Volpato

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