Puntata 30 – “Paesaggio urbano”.

…a cura di Laura Schram PighiPoesia

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   Puntata 30 – “Paesaggio urbano”.

  In Italia la raggiunta unità, comportò, com’era prevedibile, una trasformazione profonda dell’idea di città, quel paesaggio urbano nel quale ogni italiano si riconosce.
Edmondo De Amicis in Le tre capitali. Torino, Firenze, Roma (1898) sa cogliere esattamente il senso di questa trasformazione, tutta riflessa nella fiorente narrativa popolare di fine secolo. Di questa ci restano un numero notevole di documenti, quasi tutti intitolati Misteri, che descrivono un paesaggio urbano triste e degradato, una Italia tutta da ricostruire, così come appariva agli occhi degli italiani del Nord alla scoperta di un paese bello ma ancora sconosciuto.
Ci aiuta a capire questa narrativa uno studio di Sergio Romagnoli in La città, il Collodi, i Misteri (Firenze 1976). Il critico si ferma in particolare su uno scritto di Carlo Lorenzini I Misteri di Firenze. Scene sociali (1857) per osservare come il padre di Pinocchio dopo alcuni tentativi di partecipare ad un genere letterario di grande successo, rifiuti quel modello di narrativa perché “del tutto privo di umorismo” e di fantasia e preferisca ambientare le avventure del suo burattino nella metafora della realtà, piuttosto che nella sua descrizione. Lorenzini che si chiamerà poi per tutti Collodi, immagina infatti per Pinocchio una “grande città tentatrice e corruttrice (…) nel Paese dei Balocchi” una evidente satira sul dibattito attorno alla idea di città, che tanto occupava l’opinione pubblica del tempo.
I paesi dove arriva Pinocchio, nei loro nomi e nei loro abitanti, per i lettori adulti erano una allusione chiarissima all’attualità: c’è “il paese dei Barbagianni” raccomandato dal Gatto e dalla Volpe mentre seminavano le monete nel Campo dei Miracoli per far nascere la pianta degli zecchini d’oro quella che cresceva vigorosa nella capitale di quel regno, di nome Acchiappacitrulli. I suoi abitanti formano tutto un bestiario composto da citrulli accalappiati come cani spellati ed affamati, pecore tosate che tremano dal freddo, “grosse farfalle che non potevano volare perché avevano venduto le loro bellissime ali colorate” e poi galline, pavoni e fagiani tutti illusi e abbandonati, una fauna di accattoni tra i quali passavano ogni tanto alcune carrozze signorili con dentro qualche volpe o qualche gazza ladra o qualche uccellaccio di rapina.
Nel mondo di Pinocchio c’è però anche un altro paese, più piccolo, quello delle Api industriose “dove tutti lavoravano, tutti avevano qualcosa da fare” e anche un altro, bellissimo, senza scuole, senza maestri, senza libri dove “il giovedì non si fa scuola, e ogni settimana è composta da sei giovedì e da una domenica”. Quello è sicuramente un “gran bel paese” come ripete decine di volte Pinocchio, da poco cittadino unitario, per sforzarsi di crederci sul serio.
Si possono trovare altri esempi di città letterarie nel contemporaneo “romanzo sociale” che riflette la nuova realtà urbana, vista però sempre come un pericolo. Qui vivono nuovi personaggi come l’operaio, o l’imprenditore, e sono tutti infelici perché non sono più contadini legati alla terra come i loro padri, e saranno destinati ad essere uccisi dalla industria che avanza, o addirittura costretti ad emigrare.
Quando il progresso industriale, che aveva già trasformato le città in tutta Europa, arrivò in Italia, trovò una società delusa dalla raggiunta unità e ancora incerta sul proprio futuro. Le nuove generazioni post unitarie nate a fine Ottocento, avevano perduto quella antica speranza fatta di poesia e di sogni che aveva spinto i loro padri a dare la vita per realizzarli, e non erano ancora in grado di sostituirla con la speranza di una nuova vita costruita dalle macchine e dalla tecnica.
I drammatici contrasti dell’età giolittiana si riflettono tutti nella “invenzione della città” che corre parallela alla invenzione del romanzo sulla città, un grande archetipo immaginativo l’unico capace di traghettare i sogni degli italiani fino a farci entrare nelle Città invisibili di Italo Calvino un secolo più tardi.
Mi sono dedicata, con gioia e  per molti anni, a seguire la storia dell’idea di città nei suoi riflessi in letteratura, approfondendo una precedente ricerca molto più ampia sulla narrativa di utopia. Ne è venuto uno studio molto esteso su “La città ideale” nella cultura italiana dal Sette al Novecento (in “Morus-Utopia e Renascimento” n. 9, Campina, Brasile, 2013) al quale vi rimando per completezza e per la bibliografia.
Riassumendo: la prosa tra Otto e Novecento, soprattutto quella di massa, ruota attorno a due questioni che si intrecciano tra loro.
Per il primo parlamento nazionale, la prima e la più urgente delle questioni da affrontare fu l’educazione scolastica obbligatoria per tutti i cittadini, cosa che implicò il rinnovo della editoria e della pedagogia, la preparazione dei nuovi maestri, nuovi edifici scolastici e una nuova lingua italiana per tutti. Ne venne una grande narrativa per l’infanzia e un nuovo ruolo delle donne nella società e nella cultura. Ne abbiamo già parlato e riprenderò in seguito alcuni aspetti.
La seconda questione riguardava un nuovo rapporto tra uomo e natura, che si riflette nella narrativa quando la fantasia volle leggere il creato con i sentimenti e allora il paese si trasformò in paesaggio. A monte di questa nuova sensibilità, c’è l’idea di scienza come ragione e quindi verità, e arte come sentimento e quindi menzogna. Questo portò al formarsi di due speranze per raggiungere la felicità e quindi di due tipi di narrativa: la speranza nella ragione escludeva dalla vita il mistero, e verrà chiamata progresso, e la speranza in Dio, quella che invece scopriva il mistero nella vita di ogni giorno, continuerà a chiamarsi fede.  

Laura Schram Pighi

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