Puntata 20 – Antonio Genovesi.

…a cura di Laura Schram PighiPoesia

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   Puntata 20 – Antonio Genovesi.

   Alcuni anni prima del veneziano Casanova, un altro intellettuale italiano era in contatto epistolare in latino e in francese con i più noti illuministi europei: era l’abate napoletano Antonio Genovesi (1713-1769)
Genovesi veniva da una famiglia poverissima di Salerno, e aveva potuto studiare in seminario a Napoli grazie ad uno zio prete che voleva salvarlo dalla fame e dalla delinquenza e farne almeno un abate, protetto dalla Chiesa. La quale a Napoli come a Roma, si dimostrò subito avversa al giovanissimo religioso, la cui vita sarebbe miseramente naufragata, se non avesse incontrato nel 1754, l’amministratore dei beni reali, Bartolomeo Intieri (1676-1757) famoso per la sua onestà (!!) che creò allora apposta per lui una cattedra universitaria di economia, la prima in Europa.
Per onorare questo impegno Genovesi pubblicò nel 1765 le Lezioni di commercio o sia d’economia civile, divenute subito famosissime, scritte per la prima volta in italiano per i suoi studenti all’Università di Napoli, per diffondere così una scienza nuova, l’economia.
Però le Lezioni di commercio non sono un romanzo, e per di più, direte voi, avevamo scelto di investigare tra quella particolare narrativa di finzione, che fiorisce nell’area culturale veneta da metà Settecento e si distingue per tre costanti, fantasia, idee e umorismo. E Genovesi assieme a Galiani, Filangeri e ad altri illuministi napoletani, scrivono trattati di filosofia, di diritto e di economia, non romanzi.
Giusto, ma non dimenticate i due livelli di letterarietà lungo i quali si sviluppa la cultura del tempo, quello per i sapienti e quello per tutti, e il ruolo di connessione tra i due svolto da alcuni intellettuali “rivoluzionari” come il Genovesi, che volevano comunicare il loro sapere ad un pubblico più largo e più giovane, quella Italia futura già raggiunta dalla stampa veneziana che diffondeva libri e quindi idee ad altre aree culturali lontane da Venezia, come quella napoletana o quella milanese. La storia che sto per raccontarvi è un bellissimo esempio di come la cultura abbia unito l’Italia molto prima delle armi e della politica.
Un giorno, alcuni anni fa, “scavando” nella Biblioteca Civica di Verona, alla ricerca di prosa narrativa che indicasse una speranza nel futuro, tra tanti titoli come Idee, Sogno, Dialoghi, Storia futura, Storia filosofica, Profezie, Pensieri, mi trovai tra le mani un’opera di 258 pagine (!) di Antonio Genovesi dal titolo scherzoso: Lettere accademiche se sieno più felici gli ignoranti che gli scienziati del Signor Abate Antonio Genovesi al Signor  Canonico *** . In Venezia, Pasquali stampatore, 1772.
   Quando venne per me il momento di leggere quel documento curioso, sapevo che Franco Venturi nel suo Settecento riformatore (Torino Einaudi 1976) aveva dedicato molta attenzione al Genovesi, e che nel frattempo un valentissimo gruppo di settecentisti napoletani si erano dedicati alle moltissime lettere del Genovesi. Ma essi ricordano le Lettere accademiche edite nel 1764, ampliate nel ’69, riedite ancora a Napoli nel ’72, ma non quelle che io avevo trovato, stampate a Venezia nello stesso anno, ritenute una semplice ristampa dell’edizione napoletana.
Eppure, mi sono detta, se una opera di un autore famoso, continuamente stampato nella sua Napoli, veniva pubblicata dal Pasquali, l’editore veneziano dei più illustri illuministi italiani, che ha per motto “La felicità delle lettere”, ci doveva pur essere una ragione. E una domanda sul tema della felicità, presuppone una risposta. Che infatti si trova, ma nelle ultime cinquanta pagine.
Dopo una lettura resa lenta e difficile delle lettere dei due finti corrispondenti, e due dediche a due lettori diversi, e la discussione di una infinità di problemi tra i quali il commercio internazionale, il mercato globale, l’idea che i selvaggi sono tra noi e non occorre cercarli in paesi sconosciuti e mille altri, si fa strada l’idea della urgenza di una scuola nuova che dia un “sapere utile” alle nuove generazioni per preparare un mondo migliore. Un sapere utile ugualmente ai sapienti e agli ignoranti per essere liberi, in grado di ragionare con la propria testa, perché essere felici senza libertà non ha senso. L’infelicità nella quale vivono intere popolazioni stava “nelle cattive leggi, nell’inadeguata educazione, nell’invecchiato costume”.
Troppe idee insieme forse, ma sorrette da una passione sincera, il riflesso della vita di chi scrive come traspare nel brano che vi riporto: “Occorre armare le mani; armare il cerebro…arti, arti, canonico. Finché vi mancheranno, o saranno rozze e poche…vi sarà sempre un gran popolo affamato, assiderato, disteso, piova o nevichi, sulla nuda terra, per gli antri o disotto degli sporti: e questo popolo sarà sempre ladro, furbo, traditore, feroce: ma per bisogno…E’ la povertà, è la miseria, è il bisogno, è l’ignoranza che fa degli uomini crudeli e sanguinari, o spianta le famiglie, spopola le nazioni, impoverisce poco a poco piccoli e grandi, e il Sovrano infine. Opprime lo spirito, deturpa le arti e le sbarbica: rende le nazioni prima schiave, poi le caccia in campagna, siccome bestie feroci” .
   Tutte queste idee accatastate apparentemente alla rinfusa per dare l’impressione di una discussione dal tono salottiero e divertente, rimandano continuamente alla polemica tra le idee di Rousseau e di Newton che allora divideva gli studiosi di tutta Europa. E  significava ben più di quel “sapere utile” sul quale il Genovesi insiste e che porta ad una nuova economia, alla rivalutazione della tecnica e ad una nuova idea di scienza. Parteggiare per le idee di Rousseau significava accettare il principio della uguaglianza naturale degli uomini, il che non era privo di pericoli nella Napoli di fine Settecento, trent’anni prima della rivoluzione del 1799.
Ma torniamo alla idea di felicità, tanto dibattuta nel secondo Settecento, e centrale nel titolo del libro e nel cartiglio dell’editore.
Su di essa è fiorita una sterminata bibliografia critica, ignara che un economista come Genovesi vi abbia dedicato quasi trecento pagine di una “scherzevole opericciola scritta in stile umoroso” come lui definisce le sue Lettere accademiche nell’introduzione. Scritte solo per partecipare ad una “bizzarra disputa” tra nobili dame e cavalieri riuniti in un giardino, come quelli del Decamerone e dell’Icosameron di Casanova, per i quali parlare di cultura era solo un rimedio contro la noia, dal momento che loro potevano vivere senza cultura, dato che non serviva a nulla.
Lo scambio fittizio di lettere tra i due abati è solo un pretesto stilistico, e il tono discorsivo facilita il “leggitore discreto” che è il vero destinatario dell’opera, che troverà solo alla fine del libro la risposta a tante domande.
Infatti, dopo la Lettera XII dal tono moraleggiante, con un repentino cambio di tono, ci si trova sbalzati nel regno della fantasia e della satira, nell’Olimpo mitologico già visitato dal Bettinelli e dal Boccalini, per ridere assieme agli dei antichi, della pazzia degli uomini che non si sono ancora accorti di essere tutti uguali ciascuno alla ricerca della propria felicità. Pare di leggere un libretto d’opera del tempo di Cimarosa e Pergolesi, ma è un autentico copione teatrale scritto in un italiano facile, spontaneo, modellato sul dialetto napoletano, pieno di vivacità teatrale, di fantasia grottesca e di umorismo: si tratta dei Dialogi dei morti e del Decreto di Apollo.
   Qui assistiamo ad una seduta democratica del parlamento degli dei dell’Olimpo e alla decisione di Apollo che condanna “tutti i popoli stati finora selvaggi alla miseria di studiare…e tutti i culti e savi a tornare selvaggi per premio dello loro lunghe e inutili fatiche” Diogene e Menippeo ridevano in cagnesco e Aristotele disse “che era un bel problema” e “il Dalai Lama pel dolore morì da vero la prima volta dopo 4000 anni”. Si tratta di un concentrato di satira e di parodia che esplode in un corteo carnevalesco di tutti i sapienti “con certi visacci preterumani, usati solo nel Parnaso” tutti mascherati da animalacci di ogni tipo, cornacchie, serpenti, insomma tutta quella fauna accademica ben nota al Genovesi. Un trionfo di suoni e colori, la prova che dietro ad un grande economista si può nascondere anche un grande scrittore ricchissimo di idee, fantasia e umorismo.
   Genovesi non è un rivoluzionario, ma un moralista riformatore che separa la felicità laica, terrena, da quella religiosa. Non propone un mondo nuovo ma dimostra ampiamente la pazzia di quello nel quale viviamo, che va semplicemente capovolto, come dice Luciano nella sua storia verissima. Dietro al buon senso popolare del “chi si contenta gode” il Genovesi ci insegna che “ogni animale ha tanta aria quanto basta a muovere i suoi polmoni; e se respira liberamente può essere felice un bue come una pulce”.

Laura Schram Pighi

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